Jessica Bruder,
Nomadland [Edizioni
Clichy, pp. 375]
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a cura di Donata Ricci
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Non è un romanzo, né un saggio, né un reportage
in senso stretto. Come spiega il sottotitolo è un racconto d’inchiesta.
L’autrice, Jessica Bruder, è una giovane giornalista americana
sensibile alle questioni sociali e interessata alle sottoculture. Una
che fa sul serio, tant’è vero che, quando decide di indagare l’America
nomade, si procura un camper usato e diventa lei stessa nomade. Tre
anni e 24.000 chilometri dal confine messicano al Canada e da costa
a costa, al volante di Halen. Perché quando arriva il momento di trovargli
un nome musicale e Camper Van Beethoven non la convince, pensa a Van
Halen, che il concetto resta inalterato.
E’ così che incontra i vandweller, persone che a un certo punto
della vita decidono di rinunciare a un tetto stabile per trasferirsi
in un camper, un furgone, una roulotte o uno scuolabus, qualcosa che
si sposti su ruote e ti ripari dalla pioggia. Il fatto è che, nel Paese
più opulento del mondo, sempre più persone si trovano di fronte a un
dilemma: mangiare o andare dal dentista? pagare il mutuo o la bolletta
dell’elettricità? Strangolati dalle bolle speculative e dalla "Grande
Recessione" scoppiata ad inizio millennio, oppressi da ipoteche
e affitti insostenibili, fanno il loro ingresso nella tribù errante.
Una di loro è Linda May, nonna sessantaquattrenne che l’autrice elegge
a protagonista, tracciandone gli spostamenti e i lavori stagionali.
Dapprima trova un impiego presso un campeggio come host – custode, giardiniera,
cassiera, sorvegliante – per dodici ore al giorno, alla faccia delle
promesse vacanziere della compagnia di reclutamento. Ma è ancora bambagia
perché il peggio arriva quando il datore di lavoro si chiama Amazon.com.
Il colosso commerciale ha creato un programma denominato CamperForce
attraverso il quale assume a titolo temporaneo migliaia di lavoratori
nomadi (workcamper) per accaparrarsi un supplemento di manodopera
nei periodi dell’anno di maggior richiesta, per esempio attorno a Natale.
I workcamper vengono smistati nei magazzini di stoccaggio che
l’azienda definisce fulfillment centers – centri di adempimento
– con una terminologia che evoca sinistramente il Terzo Reich. Merita
un plauso Giada Diano per essere riuscita a tradurre con efficacia e
precisione un testo pullulante di locuzioni di nicchia.
Un dato sorprendente, almeno per il lettore italiano avvezzo alla cultura
dello scarto dal mondo produttivo su base anagrafica, è il fatto che
le corporation statunitensi vadano a caccia proprio di lavoratori anziani
– 60, 70, anche 80enni - in quanto “più affidabili” e “più fedeli”.
In altre parole si direbbe quelli più bisognosi di reddito e più scoperti
dal punto di vista del sostegno familiare. Va da sé che per Karren Chamberlen,
ex conducente di autobus di sessantotto anni e due protesi all’anca,
non è uno scherzo sollevare contenitori da venti chili o percorrere
ottocento chilometri in dieci settimane sul cemento dei depositi. Si
capisce perché molti lavoratori itineranti si dichiarino grati all’Ibuprofene
e c’è chi scherzando sostiene che “una buona giornata è quando non è
necessario prendere più di due compresse di paracetamolo”. Poi se le
pillole finiscono non è un problema: Amazon ha pensato a installare
dei dispenser a muro che offrono antidolorifici da banco gratuiti. Uno
sfruttamento inaccettabile nella nazione che ha potuto beneficiare per
un periodo troppo breve dell’Obamacare.
Ma tornando alla serietà dell’autrice va aggiunto che, nell’intento
di completare il processo di immedesimazione, si fa lei stessa lavoratrice
stagionale. Punta quindi verso il North Dakota per arruolarsi nell’annuale
raccolta della barbabietola da zucchero. Ne uscirà viva per miracolo.
Del resto – si chiede – cosa fanno le migliaia di workcamper
se non cercare di sopravvivere all’America? Si potrebbe dire che è in
un parcheggio Walmart zeppo di roulotte che è andato a schiantarsi il
sogno americano. E’ amaro questo libro della Bruder? Non del tutto.
C’è molta umanità ad addolcirlo. Peter Fox, un vandweller di
sessantasei anni, faceva il tassista prima di venire stritolato da Uber
e dalla net economy, al che decide di trasferire la sua residenza in
un furgone Ford E 350 bianco e si applica al progetto di una no-profit
per nomadi anziani. Attorno al fuoco spiega che vorrebbe chiamarla “Fondazione
Hello in there” come la canzone di John Prine che parla della
solitudine degli anziani. E siccome qualcuno non la conosce, tira fuori
chitarra e spartito e comincia a suonarla. Che poi è questo che tocca
principalmente di questo libro: l’incrociarsi di tante solitudini. La
solidarietà. Hai bisogno di una ricetta medica e il farmacista ti chiede
l’indirizzo di casa e tu non ne hai uno? Ti presto la mia casella postale
(“In America, se non hai un indirizzo, non sei una persona reale”).
Si potrebbe soffermarsi a lungo su questo libro, tanti sono i temi che
tocca. Ha ispirato l’omonimo film di Chloè Zhao, Leone d’Oro 2020. Mi
limito a consigliarlo, anche perché Jessica Bruder è dotata dell’equilibrio
di sapersi mantenere oggettiva senza risultare algida.
You know
that old trees just grow stronger
And old rivers grow wilder every day
Old people just grow lonesome
Waiting for someone to say, "Hello in there, hello"
(John Prine, "Hello in There")
Preparativi
di fuga
- a cura di Marco Denti -
In una nota a piè di pagina di Nomadland, Jessica
Bruder elenca i libri che costituiscono la spicciola biblioteca di questi
Tom Joad del ventunesimo secolo, che meritano senza dubbio una ripassata.
Il capostipite rimane John Steinbeck con In viaggio con Charley,
a cui andrebbe aggiunto per affinità e contiguità I nomadi, reportage
che contiene i germogli di quello che diventerà Furore. Vengono
ricordati l’immancabile Strade blu di William Least Heat-Moon,
che ormai è diventato un piccolo breviario per chi è in fuga dalle incombenze
quotidiane e così Nelle terre estreme di Jon Krakauer. Le gesta
di Alexander Supertramp alias Christopher McCandless sono un esempio
di “disobbedienza civile” portato ai limiti del possibile, così come
Desert Solitaire di Edward Abbey, un manuale di resistenza nella
wilderness che paga il giusto tributo a Walden di Thoreau, la
vera spiritual guidance dei viaggiatori di Nomadland. Aggiungiamo,
per una corretta collocazione geografica e per le infinite suggestioni
storiche e paesaggistiche il ricchissimo Leggende del deserto americano
di Alex Shoumatoff che contiene una sibillina spiegazione alla meta
preferita da vecchi e nuovi nomadi: “Il Sudovest è la parte meno americana
degli Stati Uniti”. Ci sarà un motivo, se scappano tutti fin lì.
A thousand dollar car is gonna let you down
More than it's ever gonna get you around
Replace your gaskets and paint over your rust
You still end up with something that you'll never trust
(The Bottle Rockets, "1000 Dollar Car")