Patti Smith,
L'anno della scimmia [Bompiani,
278 pp.]
a
cura di Donata Ricci
Secondo il calendario cinese il 2016 è l’anno della
Scimmia. Bisestile, vi dice qualcosa? Patti Smith nel 2016 compie
settant’anni. Il libro però esce soltanto lo scorso settembre negli
Stati Uniti e ora – anno 2020, bisestile – Bompiani pubblica l’edizione
italiana, arricchita di un’appendice che l’autrice appronta come una
sorta di adeguamento agli eventi. Perché nel frattempo qualcosa è accaduto
al nostro pianeta, vero? E siccome Patti l’Italia ce l’ha nel cuore,
le ultime due pagine – sgomente – le dedica proprio al nostro Paese
alle prese con il primo isolamento pandemico (“I notiziari avvisano
che tutta la popolazione italiana è in quarantena, un intero paese in
lockdown. Immagino i bar con le macchine per l’espresso dorate, i musei,
i teatri e le strade tortuose, vuoti per decreto. Penso a Milano, dove
“L’ultima cena” di Leonardo impreziosisce la parete del cenacolo di
Santa Maria delle Grazie, i suoi resti scintillanti che continuano a
vegliare spettralmente sulle spaventate province latine. In isolamento,
aspettano il virus, come fosse un’imminente invasione barbarica”).
Scusate, non potevo tagliarlo, c’è troppa commozione. E’ sempre stata
la sua cifra, la commozione e con l’avanzare dell’età la fa da padrona.
Patti Smith è una che i lutti se li porta dietro per tutta l’esistenza,
li adagia in ogni libro che scrive e in ogni disco che incide. Anche
nei dipinti e nelle fotografie che estrae dalla inseparabile Polaroid
Land. Che poi queste fotografie proprio una meraviglia non sono, ammettiamolo.
Se le esaminasse una giuria tecnicistica le troverebbe quantomeno difettose,
per non dire minimaliste all’osso. Un bianco e nero plebeo, più nero
che bianco. Eppure dai cartoncini fotosensibili viene fuori ad alta
definizione la sensibilità dell’autrice, è sufficiente una statuina
amputata ed ecco servita la malinconia cosmica.
Ci si annoia di fronte ai lutti di Patti Smith? Rispondo no. A meno
che non si provi fastidio davanti alla GVU (Grande Vicenda Umana). Sandy
Pearlman viene colpito da emorragia cerebrale e lei gli dedica il capitolo
intitolato Reparto Terapia Intensiva, ancora ignara della premonizione
contenuto nella locuzione. Pearlman è produttore discografico, manager,
poeta; per Patti è soprattutto colui che la scoprì durante i suoi primi
reading newyorkesi, molto più di un amico. Con Sandy si apre
lo scrigno degli affetti perduti: Sam Shepard già divorato dalla SLA
(morirà nel 2017), il fratello Todd scomparso da un pezzo ma anticipando
di soli due mesi il marito Fred Sonic Smith. E si potrebbe continuare
a lungo raccontando il dolore permanente, incombente, immanente. Un
dolore domato ma non spento, destinato ad espandersi come un curriculum
vitae. Per come la vedo io, leggere Patti Smith genera consolazione,
è partecipare al comune destino. Perciò è singolare che, nonostante
la ponderosità della materia trattata, l’immagine di questa donna si
mantenga frizzante. E’ come se la curiosità e l’entusiasmo per la scoperta
la conservassero ragazzina, just kid appunto.
La sua immaginazione è in continuo fermento, il tratto onirico sempre
presente. Quanti riuscirebbero a dialogare con l’insegna di un motel?
Lei col cartello del Dream Inn ci parla e lui le risponde pure.
La rimbrotta quando vola troppo alto e la trasporta nel regno dei sogni
quando sta rasoterra. E’ un cartello antropomorfo, anche un po’ antipatico
quando si stizzisce come un essere umano, insinua, esige. Per esempio
pretende che Patti ricostruisca a memoria la sequenza dei brani di alcuni
album: quale canzone viene prima di White Rabbit, che brano c’è
tra Queen Jane Approximately e Just Like Tom Thumb’s Blues.
Cose così. Perché in fondo è una raccolta di visioni questo volumetto.
Anche di ossessioni. E’ ossessionato per esempio dagli incarti colorati
di dolciumi rinvenuti su un arenile deserto; è percorso da strade illuminate
da un sole molecolare; impallinato da cicli di morte e resurrezione
e interessato da strati di archeologia visiva. Ma poi, per lasciar respirare
la tenerezza, mentre scende la notte in casa Shepard, lei si sistema
nel letto di fortuna da dove può vederlo e il dialogo che ne esce fa
così: “Tutto bene?” – “Sì, sto bene” – “Buona notte, Patti Lee” – “Buona
notte Sam”.
Tutto qui. Anzi, un’ultima cosa. Mi accorgo che il segnalibro, che ho
pescato tra i tanti nel cassetto, è un biglietto di auguri di un’amica.
Era il compleanno del 2016, l’anno della Scimmia.