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Levi
Henriksen
L'autenticità
nel rock'n'roll è un paradosso, essendo l'oggetto del desiderio che resta un desiderio,
la ricerca di una perfezione che non sarà mai perfetta, la speranza che si tramanda
all'infinito. L'autenticità è una chimera, anche quando è ricostruita in laboratorio,
ovvero nei corridoi degli studi di registrazione e degli uffici delle etichette
discografiche. E' sempre stata un miraggio, e in questo è diventata un tratto
determinante delle caratteristiche sognanti e ideali del pop, ma a maggior ragione
con l'evoluzione tecnologica si è evoluta in una sorta di trompe-l'œil che già
un illuminato Theodor W. Adorno (in Long Play e altri volteggi della puntina,
Castelvecchi) riassumeva così: "L'ascoltatore di grammofono non si augura altro
che ascoltare se stesso e l'artista gli offre un semplice surrogato dell'immagine
sonora della sua persona, che egli vorrebbe custodire come sua proprietà. Solo
per tale motivo l'artista accetta il disco poiché anch'egli potrebbe essere conservato
allo stesso modo. I dischi non sono altro che fotografie virtuali dei loro proprietari:
sono ideologie, volendo essere lusinghieri". In quello scarto c'è tutto il processo
della produzione discografica, dall'incisione alla promozione, che è in sé l'inseguimento
di un surrogato perfetto dell'autenticità, ricerca frustrante perché il surrogato
alla fine ha sempre la meglio. Questo implicito fallimento è il destino di ogni
produttore discografico a qualsiasi livello lo si voglia collocare (A&R, artistico,
esecutivo) e quelli che rimangono sulla cresta dell'onda a lungo, tanto da diventare
veterani e da guadagnarsi un onesto riconoscimento alla carriera, o si accontentano
di un compromesso più o meno dignitoso, o se ne infischiano e pensato soltanto
a tirare fuori un bel suono, ovvero un bel surrogato, e amen.
I Thorsen sono una sorta di Carter Family scandinava composta dalle sorelle, Tamar/Tulla (il secondo nome cela una storia parallela al Norwegian Blues, ma merita di essere scoperta a parte) e Maria e dal fratello Timoteus, un musicista pronto a fracassare un mandolino (Pete Townshend docet) se non tiene l'accordatura. Nella loro carriera hanno soltanto interpretato inni religiosi (pentecostali), spesso con arrangiamenti fantasiosi ed eccentrici, ma sempre rispettosi e adeguati alle circostanze. In gioventù hanno inciso e pubblicato dozzine di dischi e sono stati acclamati in tour negli Stati Uniti, ma, arrivati a una certa età, si sono ritirati nella campagna norvegese e non vogliono nemmeno sentire nominare per sbaglio l'industria discografica. Non hanno tutti i torti (anzi), perché come dice il protagonista di Norwegian Blues, "la gente non vuole la realtà. Vuole un reality show dal cast accuratamente selezionato". Siamo sempre lì, peraltro accuratezza e selezione sono poco più che optional. Ammaliato dalle armonie, Jim Gystad abbandona la città (Oslo) e parte all'inseguimento dei Thorsen, con l'idea di convincerli a tornare in studio di registrazione per siglare un ultimo capolavoro, e per assecondare il "bisogno di recuperare la vera essenza della musica. La sensazione di produrre qualcosa che riesce davvero a toccare l'animo delle persone". Per lui l'autenticità vuol dire Howlin' Wolf, Bukka White, John Fogerty, John Lee Hooker, Hubert Sumlin, Chet Baker, una maglietta dei Rolling Stones ma l'indizio più importante riporta a Music From The Big Pink della Band, forse il paradigma (con i Basement Tapes per logica estensione) di un'ipotesi concreta di autenticità. Jim Gystad descrive così la sua fonte d'ispirazione: "Il miglior album del gruppo canadese-statunitense The Band è stato inciso in una villa rosa a West Saugerties nello stato di New York, e io sono convinto che il sound sarebbe stato molto diverso se la Band si fosse riunita in un normale studio discografico. La cosa migliore dell'intero disco è forse proprio tutto ciò che la Band non suona, che lascia in sospeso, che osa tralasciare, ma che l'ascoltatore percepisce comunque". Quello che ricorda Jim Gystad è solo una parte, e nemmeno la più importante, ma ci va molto vicino visto che quei nastri Ed Ward li definiva "enigmatici", e non senza ragione. Lo spirito di Big Pink era pervaso da un'incoscienza da rabdomanti ed è quell'estrema curiosità raccontata in lungo e in largo da Greil Marcus in Mystery Train: "Il suono della voce del cercatore ci dice che il suo primo desiderio è semplicemente essere lasciato da solo (lasciato solo dagli amici, nemici, vicini, donne, parenti, cani, il bene e il male), ma era nato con occhi e orecchie ben aperte, e si accorgeva di tutto. Non riesce a smettere di fare domande e senza altro che le migliori intenzioni, lui inciampa in qualunque cosa incontri sulla sua strada. E siccome è affascinato da qualunque cosa che tutti noi diamo per scontato, si trova intrappolato con i suoi compari, uomini e donne, e inevitabilmente i loro problemi diventano i suoi". Guarda le coincidenze: questo è il ritratto completo di Jim Gystad a cui vanno aggiunge anche le similitudini geografiche, che rimangono chiarissime, nonostante le distanze.
L'accostamento
bucolico di Big Pink vale anche per il paesaggio della Norvegia che, pur stagliandosi
in tutta la sua austera bellezza, non è molto diverso dal resto del mondo. L'autenticità
della natura (forse l'unica possibile) è segnata dall'insensato sfruttamento del
territorio, stravolto dall'invasione dei campi da golf e scorticato dalle cave
di ghiaia, in cui, per inciso, Jim Gystad trova ispirazione persino dalla sequenza
ritmica prodotta dal rumore di un vaglio meccanico. Oltre al paesaggio, la rocambolesca
avventura lascia affiorare tutte le pieghe dell'avidità (l'antipatico nipote dei
Thorsen), della superficialità (i discografici di turno, il cui intercalare è
completamente afono), dei rimpianti e dei rimorsi che sono gli ostacoli con cui
deve misurarsi Jim Gystad, ancora più che con l'arcigna ritrosia dei Thorsen.
L'obiettivo dichiarato (l'incisione di un disco) resta molto lontano e sfumato
sull'orizzonte, ma intanto quei mesi tra i laghi e i fiumi ghiacciati, la neve
e il freddo, i piccoli lavori di manutenzione per sbarcare il lunario e persino
il confronto con i Thorsen gli restituiscono "la gioia di lavorare con la musica
senza dover pensare alla formattazione e alle esigenze di mercato". E' un primo
passo verso un altro livello di consapevolezza perché per i Thorsen, "la musica
parla di quello che succede dalla vita in su, non più in basso" e, compreso il
finale (a sorpresa), Norwegian Blues lascia intendere che la tanto
agognata autenticità non è un elemento delle strategie di marketing o una rarità
destinata agli studi antropologici e, in effetti, non è nemmeno una meta definitiva.
E' il riflesso naturale di valori vissuti e difesi fino in fondo.
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