Amazon.it

Kris Needs
Dream Baby Dream
Suicide. La storia della band che sconvolse New York City

[Spittle/Goodfellas, 335 pp.]


"Non so dove viviate, ma come per i Velvet Underground, i Dolls, e pochi fottuti altri, per me la musica dei Suicide è il suono di New York". (Lester Bangs).


La notte che bruciammo New York


di Marco Denti

Bizzarri, i Suicide lo sono stati fin dalla costituzione: un duo è già una ben strana forma di rock'n'roll band. La dimensione ridotta e rara in sé non è stata un elemento limitante perché i Suicide hanno anticipato e condensato tutti gli elementi del punk, compreso e più di tutto lo spirito "do it yourself". I marchingegni di Martin Rev sono miracoli traballanti di architetture elettroniche, patchwork spontanei di tastiere, cavi, effetti e rottami rigenerati e assortiti. Il più delle volte raccolti tra la spazzatura, dove vivono molti cittadini e tutti gli artisti di New York. Ricorda lo stesso tastierista, nel ruolo di ideologo dei Suicide: "Come di consueto, iniziammo con questo sound straordinariamente intenso. Era davvero inedito. Nessuno era preparato per quel tipo di intensità. Trenta secondi e si spense tutto". Non sarà l'unica volta perché come racconta Kris Deeds "i Suicide saranno anche partiti come un fenomeno di contestazione artistica, ma le emozioni palpitanti che venivano espresse, con ogni mezzo necessario, erano tutte le loro". Quando Martin Rev e Alan Vega si incrociano le prospettive sono molto aleatorie, a parte quella di inseguire la creazione casuale di un suono con la passione per le soluzioni più viscerali, per i contrasti, e per le provocazioni. Rende l'idea l'aneddoto della visita di Martin Rev ad Allen Ginsberg, il quale lo aggredisce sostenendo che fosse da irresponsabili usare un nome come Suicide. Si capisce, e chiunque si sarebbe demoralizzato, per Martin Rev invece è stata una medaglia al valore: "Eravamo persino riusciti a far incazzare Ginsberg".

I Suicide erano terrificanti, facevano inorridire i tecnici degli studi di registrazione, e (neanche a dirlo) ripugnavano gli addetti delle etichette discografiche. Senza rimorsi, come sostiene Alan Vega: "Schifo non è la parola giusta. Faceva più che schifo. Era straordinario! Era tutto un sound creato in base alla necessità di costruire un sound perché non riuscivamo a ottenere un sound. E venne fuori. Boom! Fu come il big bang!", e a suo modo aveva ragione. Kris Deeds li definisce "alieni e arcani" ed è una bella definizione, ancora oggi. La musica ha un groove folle, che ha influenzato tutti, per non dire delle sonorità tenebrose: dentro quell'involucro extraterrestre c'è però un saldo e radicale abbraccio all'essenza del blues e del rock'n'roll. Anche il jazz, all'inizio, per Martin Rev, che ha studiato con Lennie Tristano e ha ammirato Albert Ayler, un musicista che avuto un'influenza notevole sul futuro suono di New York, essendo tra le passioni dei Television. Poi l'ombra avvolgente e assoluta dei Velvet Underground, lo spirito di Elvis in percentuale maggiore per Alan Vega: piccoli collegamenti, connessioni, spunti impensabili, se si pensa alla monolitica forma elettronica dei Suicide.

E ancora, l'elemento più importante nel ricostruire "the sound of the city" è il doo-wop perché come ricorda Martin Rev: "era la musica del mio tempo. Risuonava nel quartiere, per le strade, agli incroci. Lo sentivamo a scuola, a ballare, quando accendevano la radio. Il doo-wop era la nostra musica. Il bello del doo-woop era che era qualcosa di davvero idealizzato. Era romantico in un modo quasi religioso. Tutta quella roba viene fuori comunque dalla chiesa, solo con una diversa interpretazione. Le canzoni d'amore rasentano la pura preghiera, andando anelando a qualcosa di celestiale. Crescere ascoltando quella roba fu una fase incredibilmente romantica. Era la musica con cui innamorarsi, la colonna sonora dei sentimenti più intensi e profondi. Prova a metterla insieme con l'essere adolescenti". L'origine primaria e primordiale del doo-woop è qualcosa di particolare per una delle più strane creature si siano mai viste e sentite nella storia del rock'n'roll. Non avevano niente, nessun luogo comune, nessuno standard, nessun cliché, neanche una chitarra. Eppure, quello dei Suicide è rock'n'roll allo stato puro, selvaggio, inalterato, fino al midollo, fino al DNA e in fondo non si discosta molto dall'idea di Martin Rev: "La musica che suoniamo è nient'altro che blues... Un tipo diverso di blues. Questo è il blues. Il blues vero. Il nuovo blues. La gente deve ascoltare questa musica perché lo sentiranno tutto il tempo, perché se non sono io a suonarlo, lo farà qualcun altro. E' l'unica cosa rimasta da suonare ai musicisti. Tutte le altre strade sono state percorse".

Il blues, nelle fondamenta e sotto le apparenze, riporta alla natura urbana e notturna dei Suicide che si trovano in quella Città in fiamme, come recita il titolo del romanzo di Garth Risk Hallberg (Mondadori), in cui "tutto casuale, certo, ma era questo che la città ti regalava e i romanzi no: non quello che ti occorreva per vivere, ma prima ancora, quello per cui valeva la pena vivere". Martin Rev e Alan Vega condividono le strade con altri "ghost rider", più di tutti i New York Dolls che, insieme a Iggy Pop con gli Stooges, saranno una delle massime influenze per Alan Vega, come performer. Pur essendo agli antipodi, almeno da un punto di vista strettamente musicale e strumentale, come ricorda Johnny Thunders "i (New York) Dolls erano un'attitudine. Se non altro erano una grande attitudine". Le testimonianze collezionate da Kris Needs concordano e infatti l'altro chitarrista, Syl Sylvain, conferma: "Eravamo giovani e urlavamo la mossa successiva della nostra generazione. Non ci siamo mai seduti intorno a un tavolo a elaborare un piano generale per vestirci da donna o cose del genere. Eravamo talmente avanti rispetto al nostro tempo che non ce ne eravamo nemmeno accorti. Tutti gli altri prendevano appunti e li mettevano al sicuro, ma noi ci siamo spezzati le gambe perché correvamo troppo veloce, dannazione. In effetti, senza neanche sapere cosa facevamo, stavamo inventando tutto quanto".

L'urlo feroce di Frankie Teardrop, "una canzone che parla di tutti noi" così come la presentava Alan Vega, viaggia sul filo del rasoio tra l'allarme e l'incendio, tra una sirena e la voce di un incubo. Martin Rev lo riassume così: "Stavamo portando sul palco la guerra. Era una cosa espressionista. Era come se ci fossero due ere diverse. Lo descriverei come due guerre mondiali; la terza e la quarta guerra mondiale che succedono nello stesso momento". Un po' criptico, ma eloquente, visto che, come sostiene ancora Alan Vega: "Era così che andava in quel periodo. O nessuno voleva darti una possibilità, oppure volevano dartela tutti, appunto perché tutti vivevano alla giornata". Le occasioni non mancano, anche se spesso stare su una parvenza di palco (anche meno) è come stare in trincea. Diceva Walter Lure, chitarrista con gli Heartbreakers di Johnny Thunders: "Il CBGB's era una storia a sé stante, come poto era un vero cesso che aveva quel tipo di fascino che solo i cessi in rovina hanno". I Suicide, però, sono scomodi persino per il CBGB's e trovano casa al Max Kansas City e ancora di più al Mercer Arts Center. La logica era "Wow, qualcuno stanotte potrebbe scoprirci", come si augurava Marty Rev, ed è lì che i destini della città e dei Suicide si sommano. Il connubio, visto da diverse angolazioni, è l'inizio e la fine della storia dei Suicide. Dice Martin Rev: "Devo sempre ammettere che New York deve aver giocato un ruolo essenziale nel sound. Il contesto, l'architettura, la tensione, l'intensità, la sua peculiarità". E' ancora New York, protagonista assoluta, la trasformazione urbanistica di una città che implica l'evoluzione dell'arte.

Un altro tra i più coraggiosi protagonisti di quel momento, James Chance spiega: "All'epoca New York era una sorta di parco giochi perverso, dove ti sentivi libero di fare, in teoria, tutto quello che volevi, e difficilmente ci sarebbero state delle conseguenze". Fin troppo facile vedere nel crollo del Mercer Arts Center un turning point, la fine di un'era e l'inizio di un'altra. Come tutti i pionieri l'avanguardia futuribile dei Suicide restò in gran parte incompresa e New York è stata anche il loro capolinea. La testimonianza al di sopra di ogni sospetto di Robert Fripp è lapidaria: "E' difficile descrivere cosa New York rappresenti in questo momento per il rock'n'roll. I club si diffondono ovunque, ci sono nuovi gruppi, idee grandiose ed entusiasmo. L'unica cosa sbagliata è l'industria della musica. New York brulica di band, ma l'industria non ha idea di cosa farne". A maggior ragione, se è vero, come è vero, che New York ha visto, come scrive Kris Deeds: "i Suicide trascendere ogni movimento in quanto brandivano la torcia che era stata accesa da Elvis Presley, per sovrapporre tutte le innovazioni e la rivolta che la società e la cultura avevano vomitato da allora e forgiare un nuovo sound furibondo volto al futuro". Kris Deeds spiega molto bene il valore aggiunto dell'evoluzione urbana di New York in quel periodo, dove agli artisti era permesso sopravvivere a due passi da Wall Street e movimentare le notti della città. D'altra parte lascia intuire che dopo la gentrification progressiva e irreversibile di un quartiere dopo l'altro, non ci sarà più nulla. Se si vuole trovare qualcosa bisogna andare a Brooklyn, e comunque l'incendio si è spento per sempre.

Lo snodo vale per i Suicide che, dopo i caotici tour europei con i Clash e con Elvis Costello e le produzioni di Ric Ocasek, si avviano a stemperarsi nelle rispettive carriere soliste, Alan Vega verso il rock'n'roll, Martin Rev con tessiture sperimentali e strumentali. La parte più recente della storia dei Suicide, riconoscimenti e premi (sempre troppo tardivi) compresi, è molto più sfumata e intermittente. E' chiaro che i Suicide erano quei Suicide e che la loro collocazione geografica corrispondeva e collimava con la loro identità. Magari va ricordato l'estemporaneo passaggio di Cubist Blues con Alan Vega stretto tra due generazioni di outsider, quella rappresentata da Alex Chilton e da Ben Vaughn per un omaggio alla Fat City degno del suo titolo. L'unico aggiornamento, rispetto a quella che a tutti gli effetti è una storia orale raccolta da Kris Deeds, è la scomparsa di Alan Vega, che già aveva sofferto un ictus e un infarto, e che a 78 anni, nell'estate dell'annus horribilis 2016, ha tolto il disturbo, andandosene nel sonno, senza una parola in più del necessario, in perfetto Suicide style.



 


<Credits>