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Vila-Matas
Dublinesque
[Feltrinelli] pp.246
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Samuel Riba è l'editore che tutti gli scrittori vorrebbero avere. O forse no:
un editore avaro e poco propenso a mettere mano alle sue abitudini, ma anche votato
al libro, al romanzo, alla letteratura come un'ossessione, uno spirito che insegue
una chimera, uno spettro che insegue il fantasma del genio e che "ha sempre ammirato
gli scrittori che ogni giorno intraprendono un viaggio verso l'ignoto e tuttavia
rimangono tutto il tempo seduti in una stanza. Le porte delle loro camere sono
chiuse, non si muovono mai, ciononostante il confino offre loro l'assoluta libertà
di essere chiunque vogliano essere, di andare ovunque li portino i loro pensieri".
Nemmeno la pensione, un ritiro abbastanza agiato (a qualcosa sarà pur servito
risparmiare sugli anticipi degli autori) riesce a mitigare i tormenti dell'editore,
più turbato dei suoi stessi scrittori, che lo portano a dividersi tra due città
che sono, insieme, punto di partenza e capolinea. New York è la base da cui comincia
la sua odissea, Dublino è l'approdo per i fantasmi, quasi un viaggio al contrario,
una traversata di riflesso, da migrante della narrativa, ancora in cerca di una
risposta, che in fondo arriva: "Qual è la logica tra le cose? Davvero nessuna.
Siamo noi a cercarne una tra un segmento e l'altro di vita. Ma questo tentativo
di dare forma a ciò che ne è privo, di dare forma al caso, sanno condurlo in porto
solo i buoni scrittori". Bellissimo. | |  |
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Ben
Ratliff
Come si ascolta il
jazz
[Minimum
Fax] pp.242
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A differenza del suo equivalente nel rock'n'roll, ovvero Scritto nell'anima
di Bill Flanagan, le "conversazioni" di Ben Ratliff hanno ben poco in comune
con le interviste e molto di più con l'idea jazzistica dell'interplay trasportata
all'interno delle dinamiche dell'incontro. E' naturale che al cospetto di "saxophone
colossus" come Wayne Shorter o Ornette Coleman, Branford Marsalis o di tutti gli
altri grandi musicisti convenuti, Ben Ratliff mantenga una rispettosa distanza
ed è anche funzionale allo scopo principale del libro. Imparare a comprendere
la musica (che, guarda caso, non è soltanto jazz) ascoltandola con chi l'ha creata,
vissuta e suonata a livelli rivoluzionari. Il processo ha le sue particolarità
e le sue difficoltà soprattutto quando ci si addentra nelle frazioni matematiche
che costituiscono l'essenza del ritmo o nelle notazioni musicali più criptiche.
C'è però una corrente sotterranea che serpeggia ed emerge prepotente condivisa
da tutti e la spiega con precisione Sonny Rollins: "Questo è il jazz: jazz vuol
dire libertà. Non credo sia obbligatorio andare sempre a tempo. Ma si può suonare
in due modi diversi. Uno, senza pulsazione. L'altro, con una pulsazione fissa
e si suona su quella. Ed è questo che io considero il paradiso, riuscire a essere
così liberi, spirituali, musicali. Mi sembra di poter dire che è un'idea tuttora
poco considerata". Ecco, questa è l'occasione giusta per ripensarci.
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James
Reasoner
Il vento del Texas
[Meridiano
Zero]
pp.190
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Una ragazza scompare nell'arida aria del Texas. Si chiama Mandy, è ricca (di famiglia),
canta (in un trio) e l'ultima volta che è stata vista era in compagnia del chitarrista
(ma non del suo fidanzato). Le triangolazioni non finiscono qui perché l'incarico
per ritrovarla viene affidato a Cody, un private eye solido e disilluso con la
passione per l'arte e per i dubbi che se la cava con una visione filosofica tutta
sua: "La maggior parte degli investigatori privati, me incluso, spendono più tempo
aspettando che facendo qualunque altra cosa. E' la parte principale del lavoro,
e non può essere evitata. Ma non ci si abitua mai. Il tempo trascorso nell'attesa
passa lentamente come quando eri bambino e non riuscivi a capire perché per tutto
quello che facevano gli adulti ci voleva così tanto". Mentre il "vento del Texas"
sfoglia le pagine di una storia che, si intuisce fin dalle prime battute, è chiusa
su se stessa (per quanto ci proviamo a considerarli estranei, forse nel tentativo
di autodifenderci, i mostri e le mostruosità sono sempre più vicini), con il suo
quotidiano tran tran e pur sconfitto a più riprese dalle evidenze Cody riesce
ancora a suggerire una scintilla di salvezza e/o di giustizia. Anche nel duro
Texas che, parole sue, una volta "era un bel posto dove vivere, prima che cercasse
di diventare un'altra California o un'altra New York. Adesso basta l'ultima novità
o trovata di moda e tirano fuori i longhorn di cartapesta. Forse è più furbo,
ma di certo così è molto meno reale". Consigliato
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Emanuele
Mandelli El
Paso
[Il
Simposio delle Muse] pp.91
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Cosa ci fa un venditore di fertilizzanti in Texas? Di sicuro deve risolvere un
problema: come ammazzare il tempo. Così un sabato pomeriggio del 1966, in una
sonnolenta birreria di El Paso, Harold P. Warren - una lettera puntata nel nome
fa sempre figo - accetta una scommessa e si inventa un film horror: Manos-The
Hands of Fate. Già l'ambiguità ispano-anglofona insospettisce. Infatti Manos
è universalmente considerato uno dei peggiori film mai realizzati, tanto da diventare
un cult. Nonché un bengodi per i ricercatori di pellicole di serie Z: doppiaggio
fuori sincro, ciak dimenticati nelle inquadrature, battute incongruenti: "Si sta
facendo notte" sentenzia Diane alle due del pomeriggio, con il sole a picco. Tuttavia
Manos permette ad Harold di vincere la sfida e ad Emanuele Mandelli di
scrivere un paio d'ore di puro divertimento. Anche se la location non è uno scherzo:
la città di El Paso, sul martoriato confine tex-mex, è contigua a quella Ciudàd
Juàrez nota per i femminicidi, che Sergio Gonzàlez Rodrìguez ha documentato in
Ossa nel deserto. Un agglomerato spaccato in due dal Rio Grande: da una parte
sei negli Stati Uniti, dall'altra in Messico. Fino a pochi anni fa addirittura
due fusi orari, cosicchè gli abitanti festeggiavano il capodanno negli States
e poi attraversavano il fiume per rifesteggiare in Messico. Bisogna pur sopravvivere
in questa piega d'America occultata dalla polvere del deserto. "Domani prendo
la 70 e vado ad Amarillo a cercare altri clienti" si ripromette Harold. "Per Harold
andare ad Amarillo è un po' come sentirsi in periferia della California. Come
Piervittorio Tondelli ipotizzava che prendendo le Autobahn a Reggio Emilia era
come sentirsi in periferia di Berlino". (Donata Ricci)
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