Non è facile dire quale
sia stato l’anno, o il disco, o l’artista, che ha chiuso il ciclo evolutivo
di quella che per mera comodità continuiamo a chiamare “Black Music”,
confidando sul fatto che con questa definizione non si corre il rischio
di sospetti di razzismo e poca inclusività. Ma la - al momento - breve
epopea dei Black Pumas, duo di Austin formato da Eric Burton e
Adrian Quesada (un afroamericano e un ispanico che suonano nella capitale
della roots music americana, cosa fare di più per confondere le vecchie
idee?), sta in qualche modo dimostrando che il genere è arrivato ad un
punto di sintesi ormai completo.
Già lo fecero capire nel 2019 con il loro acclamatissimo esordio
omonimo, e cioè che ormai non ha più troppo senso fare divisioni tra
il vecchio soul ravvivato in questi anni Duemila dal foltissimo movimento
New Soul, la tradizione delle band funky degli anni 70, e il totale
cambio di paradigma portato negli anni 80 da Thriller di Jackson
e ovviamente Prince, l’hip hop e l’ R&B degli anni 90, e i grandi nomi
di queste stagioni che già avevano operato un ulteriore passo in avanti
nell’unire il tutto (penso a D’Angelo, Cody Chesnutt o tanti altri). I
Black Pumas arrivano ultimi, eppure suonano freschi, e, buona notizia,
continuano ad esserlo anche in questo secondo album, Chronicles
of a Diamond, che si è fatto attendere più di quattro anni, in
cui i due hanno ammesso di essersi sentiti parecchio sotto pressione.
La scelta, secondo me saggia (vedremo poi se vincente o no), è stata quella
di aver deciso di non avere nulla da dimostrare a nessuno, e così questo
disco sposta il focus sulle canzoni e sulle melodie (alquanto cantabili
e “radiofoniche”, per usare un vecchio termine che non saprei sinceramente
attualizzare in epoca di streaming), mentre non cerca di strabiliare unendo
stili diversi senza criterio. La giornalista Emma Harrison su Clash lo
ha definito “una paradisiaca tavolozza interculturale di soul stellato,
rock psichedelico, jazz funk, e pop sinfonico" e francamente potremmo
fermarci qui, soprattutto perché l’ultima delle definizioni è quella su
cui più mi soffermerei. Perché brani come More Than a Love Song
o Mrs Postman dimostrano quanto lavoro
ha fatto Burton nel costruire melodie sopra le ritmiche di Quesada, riuscendo
a unire le lezioni “black” di Smokey Robinson e quella “white” di Harry
Nilsson in un unico risultato.
E’ forse meno ballabile del suo predecessore, in cui l’amore per il funky
di Quesada aveva più spazio, ma ancora più pregno di influenze, dal gospel
di Angel alla quasi filastrocca pop
di Ice Cream (Pay Phone). Nel finale arriva poi Rock
and Roll a trovare un accordo tra generi che valga per tutti
i gusti sotto un titolo così loureediano. Eppure, nonostante la bontà
di molti brani brani, non sta piacendo a tutti questo Chronicles of
a Diamond, forse perchè ci mette meno istinto e sudore e più ragione
e cultura musicale, o forse perché il tentativo dei Black Pumas di farci
anche solo riflettere su cosa ancora si può aggiungere in questa musica
necessita di ulteriore tempo.
Risentiamolo fra qualche anno magari, potremmo scoprire che avevano capito
qualcosa in anticipo, oppure davvero sì, lo ricorderemo solo come una
svolta più leggera (un tempo dicevamo “easy” pure sui giornali italiani,
ricordate?) del primo album.