Secondo un celebre saggista francese, gli individui non
acquisterebbero prodotti, bensì le storie rappresentate e incarnate da
quei medesimi prodotti. Ciò spiega come mai non solo le tecniche del commercio,
ma la politica, il cinema e perché no la musica stessa siano, oggi, del
tutto succubi della necessità di raccontare una storia. Certo, la frantumazione
dei saperi messa in atto dalla comunicazione via social ha senz’altro
agevolato il prepotente riaffermarsi delle "narrazioni" dopo
la loro apparente dispersione, causata dalle correnti del post-modernismo,
ma l’attuale necessità, da parte del pubblico, di coltivare un’idea attiva
di partecipazione, in direzione delle cosiddette esperienze "immersive",
indica comunque un fenomeno nuovo. Spesso, sempre nell’ambito dei social,
fin troppo emotivo, superficiale e ben poco ragionato; di natura opposta,
invece, in altri contesti dove approfondimenti e apparati rappresentino,
da sempre, un universo di informazioni da esplorare in profondità.
Negli ultimi tempi, infatti, sono diventate sempre più belle e curate,
esaustive e appaganti le pubblicazioni dell’etichetta Folkways
un tempo appartenuta al newyorchese Moses Asch e oggi gestita dalle istituzioni
dietro agli americani musei Smithsonian: non l’espressione di una semplice
opinione per la quale le musiche del passato, meglio se amatoriali, sarebbero
più interessanti di qualsiasi articolo del presente (o comunque indispensabili
per capire anche quest’ultimo), ma una vera e propria ideologia - interpretare
l’attualità attraverso gli strumenti delle epoche precedenti - qualificata
e resa inattaccabile dalla precisione, dalla preparazione, dal rigore
delle attrezzature metodologiche adoperate per estrinsecarla.
Alla base di Playing For The Man At The Door: Field Recordings
From The Collection Of Mack McCormick 1958-1971, reperibile sia in
triplo CD sia in un cofanetto da 6 LP, c’è ovviamente il repertorio messo
insieme dal fanatico del blues la cui collezione viene saccheggiata, ma
anche la convinzione che gli Stati Uniti siano, oggi come ieri, una fusione
(forse infelice, ma non per questo da sconfessare) di tanti elementi umani
diversi, inattaccabile persino per il moderno antagonismo capitalista
fatto di esclusioni e confini, perché come diceva l’antropologa Margaret
Mead, "tutti gli americani sono di terza generazione", tutti
sono sbucati da un costante intrecciarsi di nuovi concittadini, immigrati,
stranieri.
Quindi, antologizzare i materiali per più di vent’anni accumulati da Robert
Burton “Mack” McCormick peregrinando per quel che lui stesso chiamava
Greater Texas, ossia la parte orientale della nazione omonima (più scampoli
di Louisiana, Oklahoma, Arkansas, Alabama e Mississippi), dove letteralmente
l’uomo bussava alla porta di (talvolta) emeriti sconosciuti, senza fermarsi
davanti agli ingressi di ospedali psichiatrici o bettole segregate, case
private o piccoli allevamenti sigillati alla meno peggio da cadenti reticolati
metallici, alla ricerca del "vernacolo del Sud" in purezza,
non solo registrando all’impronta ma scattando anche fotografie una dietro
l’altra, significa riconoscere ai neri e ai latini del meridione nordamericano,
ancora una volta, un ruolo predominante nella costruzione dell’immaginario,
sonoro e non soltanto, del proprio paese.
Una narrazione in questo caso asseverata, si diceva, dai
ricordi della figlia di McCormick in persona, Susannah Nix, che nelle
note di Playing For The Man At The Door: Field Recordings From The
Collection Of Mack McCormick 1958-1971 ricorda come il padre, in qualità
di artefice dell’autopubblicato e autodistribuito Ragtime Texas Complete
Recorded Works (1974), dedicato ai pittoreschi blues di Henry Thomas,
texano idolatrato da Bob Dylan, Lovin’ Spoonful e Grateful Dead, avesse
per l’occasione raccontato della felicità della bambina nel trovarsi nei
paraggi del musicista, in onore del quale aveva battezzato una sua bambola
e imparato a ballare. Questo supplemento di storytelling, evocando il
genuino entusiasmo di un’epoca in cui tutto sembrava ancora passibile
di classificazione e scoperta, spiega come sia stato possibile che un
antropologo e musicologo dilettante archiviasse la bellezza di 600 nastri
di incisioni originali e più di 150 scatoloni rigurgitanti annotazioni,
locandine, negativi e trascrizioni di interviste (tutto materiale donato
allo Smithsonian dopo la morte di McCormick, scomparso nel 2015, ottantacinquenne,
per un cancro all’esofago).
Accompagnato dalle 128 pagine di uno spettacolare libretto e dagli scatti
dello stesso McCormick, Playing For The Man At The Door: Field Recordings
From The Collection Of Mack McCormick 1958-1971 presenta 66 incisioni
inedite di artisti in (minima) parte piuttosto noti - Lightnin’ Hopkins,
Mance Lipscomb, CeDell Davis - accanto a un fiume di testimonianze recuperate
da illustri carneadi ora impegnati a far gemere la propria armonica (ci
pensa Billy Bizor, sconosciuto cugino di Hopkins, in una virtuosistica
Fox Chase) e ora occupati a magnificare le glorie dell’auspicata
vita eterna (tratteggiata con grande convinzione da Hardy Gray nella placida
Come And Go With Me To That Land, e ci credo non avesse poi troppa
fretta di raggiungerla, "quella terra" celeste), in una sarabanda
travolgente di espressività musicale di volta in volta declinata nei toni
del blues, del folk più selvatico, dello spiritual.
Non mancano lo stato dell’arte country, sebbene totalmente improvvisato
(come fa James Tisdom nella spumeggiante Salty Dog Rag), e puntate
nello zydeco (interpretato con grinta irrefrenabile dai Dudley Alexander
& Washboard Band di una robusta St. James Infirmary), esempi di
proto-rap amaro e sboccato (ascoltate la One Room Country Shack
di tale Grey Ghost, al secolo Roosevelt Thomas Williams), beat squadrati
alla Bo Diddley (si può sentire “Jealous” James Sanchell alle prese con
la sudicia Anything From A Foot Race To A Resting Place) e persino
deliranti proclami all’insegna dell’antipolitica (se ne fa latore il George
“Bongo Joe” Coleman imprevedibile e teatrale di George Coleman For
President, Nobody For Vice President, costruita intorno alle steel-drums
il cui uso l’esecutore aveva appreso dai marinai caraibici transitanti
per il porto di Galveston).
Benché privo di una formazione accademica vera e propria,
McCormick era solito distinguere con estrema chiarezza fra i tribal people
da lui immortalati al magnetofono e gli altri membri delle comunità nere,
più interessate all’urbanizzazione e all’integrazione nei contesti metropolitani;
attribuiva alle seconde l’abbandono delle antiche tradizioni orali e ai
primi, al contrario, una costante manutenzione, seppure spontanea e non
mediata dallo studio, delle pratiche folcloriche invalse dai primi anni
del ‘900. E in effetti, tra i musicisti documentati da McCormick non ce
n’è uno caratterizzato dall’osservanza dei linguaggi ufficiali: anche
Harding “Hop” Wilson, adorato da Johnny Winter (non a caso), che pure
suonava nei locali della provincia di Houston, Tx., uno strumento piuttosto
complicato (nonché fabbricato artigianalmente) come la lap-steel a doppio
manico, lo faceva con una grammatica tutta sua (evidentissima nel country-blues
febbrile di Broke And Hungry), mantenendosi refrattario all’eventualità
di esibirsi per il pubblico bianco e forse proprio per questo risultando
invariabilmente crudo e autentico.
D’altro canto, difficilmente il blues scorticato e nerissimo di Luke “Long
Gone” Miles (Rock Me Baby, notevole), o quello ubriachissimo del
piano barrelhouse di Edwin “Buster” Pickens, appena più rifinito del rantolo
da tastierista autodidatta di Robert “Fud” Shaw (a tutti gli effetti detentore
di un negozietto di alimentari con licenza per la preparazione di carni
alla griglia, lo Stop And Swap di Austin), avrebbero potuto incontrare
l’interesse di etichette magari volenterose sul piano della ricerca (per
esempio la Arhoolie di Chris Strachwitz) ma pur sempre guidate da bianchi.
Se, come chi scrive, nutrite una profonda, invincibile attrazione per
le storie, ma allo stesso tempo pensate anche che il sapere, contrariamente
a quanto ritengono i profeti contemporanei innamorati del talento e del
merito, sia un’entità viva e abitabile, studiando la quale sia possibile
capire un po’ meglio il mondo in cui viviamo, allora Playing For
The Man At The Door: Field Recordings From The Collection Of
Mack McCormick 1958-1971, peraltro stracolmo di canzoni bellissime,
singolari, inaspettate e spiazzanti, fa assolutamente al caso vostro.
Perché se oggi sono appunto le «narrazioni» a condurre il discorso pubblico,
a ogni latitudine, approfondirne radici e meccanismi, e analizzarne col
dovuto impegno le espressioni più compiute (come questa), circoscrive
prima di tutto un gesto, inderogabile, di resistenza culturale.