E'
cresciuto tra le leggende Kenny Brown, unico ragazzo bianco tra
i juke joints del più profondo e depresso Mississippi: a diciotto
anni già suonava con gli eroi del luogo, Johnny Woods, Joe Callicott
e Fred McDowell. Poi, per quasi vent'anni, è stato il braccio
destro di una delle ultime leggende viventi del Delta, R.L. Burnside,
il quale ha sempre considerato Kenny come suo figlioccio adottivo. La
slide assassina di Brown ha accompagnato le tappe fondamentali di una
preziosa riscoperta, che ha potuto materializzarsi grazie alla Fat Possum.
Ora, dopo tre lunghi anni di gestazione, è arrivato il momento
di uscire allo scoperto con Stingray, primo lavoro a firma
solista: con l'aiuto di una rodata band di amici (tra cui il figlio
di Burnside, Cedric, alla batteria e Takeeshi Imura al basso), Brown
si è servito di tutta l'esperienza accumulata sul campo per creare
quaranta minuti di rozzo blues-rock, impaludato tra la melma del Mississippi,
saccheggiando vecchi classici e traditionals, rivestendoli però
di una sensibilità a metà strada tra il rock'n'roll di
un uomo bianco e quelle dimamiche ipnotiche del cosiddetto stile downhome,
portato alla ribalta da gente come il citato Burnside e Junior Kimbrough.
Gli estremi sono individuabili da una parte in If Down Was Up,
uno sporco funky-rock che sembra uscire dalla penna dei Rolling Stones,
e Brought You To the City, che con quell'insistente sax che soffia
alle spalle si trasforma in un bollente rhythm'n'blues; dall'altra in
una serie di rispettose riproposizioni dei suoi amori blues, tra le
ritmiche convulse di Miss Maybelle e Goin' Down South
e le numerose pause acustiche che conferiscono al disco un'impronta
da autentico classico. Splendide su questo ultimo versante Cocaine
Bill, dove il basso riesce in una perfetta imitazione della tuba,
la cantilena di You Don't Know my Mind e la chiusura di Fare
Thee Well Blues, in cui la voce di Kenny Brown acquista la stessa
credibilità dei suoi maestri.
(Fabio Cerbone)
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