Il sorriso di Buddy Guy
splende come non mai sulla copertina del suo nuovo disco. The Blues
Don’t Lie sembrerebbe essere allora il suo trentaquattresimo album
da studio, ma i dischi di uno degli ultimi eroi di quella scena chicagoana
dove il suono del Sud si è urbanizzato, divenendo quell’inconfondibile
marchio di fabbrica della “città ventosa”, non si contano. E’ Buddy Guy
e non c’è altro da aggiungere, al cospetto dei suoi ottantasei anni, che
ce lo fanno ritrovare qui a far coppia con gli innumerevoli ospiti per
un disco potente, prodotto da Tom Hambridge in gran parte a Nashville,
e poi col contributo degli studi di provenienza delle collaborazioni.
E neppure ci sarebbe da dire alcunché di queste sonorità in grande spolvero,
magistrale “wall of sound” da far vibrare i vetri, con band al seguito
che alterna fior fiore di musicisti al susseguirsi dei bassi di Michael
Rhodes e Glenn Worf, come della batteria dello stesso Tom Hambridge, piuttosto
che della chitarra di Rob McNelley, oltre alle tastiere di Kevin McKendree
o Reese Wynans, Max Abrams e Steve Patrick ai fiati, interventi di Michael
Saint-Leon ad altra chitarra e controcanti di Mike Hicks. Un ineccepibile
investimento, che fa onore a un grande e lo coinvolge al meglio, quando
è lui a restituirti il favore con quell’approccio nervoso e cristallino
che, ci sembra, brilli ancor di più in quelle tracce in cui persino le
belle ospitate se ne vanno, l’eroe è solo e la migliore del lotto è nientemeno
che l’ultima traccia, spoglia di quella cosmesi sonora divertita e divertente
in quest’ora di musica (ben sedici, le tracce di The Blues Don’t Lie)
e Buddy che ci saluta su di una I’m A King Bee
acustica, come dai reconditi ancestrali dello stesso Chicago-Blues.
Un fuori programma, perché il blues urbano è stato anzitutto elettrificato
ed il banco di prova, se mai ce ne fosse ancora bisogno, sono le restanti
parti di quest’ultima vicenda, vissuta al fianco di guest stars come Mavis
Staples, Elvis Costello, James Taylor, Bobby Rush, Jason Isbell o Wendy
Moten, neanche fossimo al suo famoso Buddy Guy’s Legends, 754 South Wabash
in Chicago, Illinois. Lo incontrammo davvero quella sera di un viaggio
al Chicago Blues Fest, 2009, dove in una visita al suo locale, orologio
d’oro e tuta “da casa”, lo avvicinammo coi nostri omaggi, che quasi pareva
infastidito del disturbo di due “visi pallidi” d’ignota provenienza.
Lo ritroviamo qui, in un disco che parrebbe fin troppo affollato, con
le tracce che certo “vibrano” di blues come il trillo della sua chitarra,
travolgente in apertura della fin troppo invadente
I Let My Guitar Do The Talkin’, così come nella title-track
di un più discreto e apprezzabile slow, quando a dire che il blues non
mente in realtà, è piuttosto la più equilibrata e bella The
World Needs Love. Non possiamo così non apprezzare un blues
carico di soul come We Go Back, condiviso da due statuari interpreti
come lo stesso Guy e Mavis Staples. Certo è che se le collaborazioni
fanno sempre molto effetto, e piace senz’altro godersi anche un funky
sincero con Bobby Rush all’ottava What’s Wrong (e House Party
con Wendy Moten, a fare il paio per le rese collaborative migliori) è
nell’infornata finale che mi pare di ritrovare quanto si riesca a gustarsi
al meglio: Buddy and the band, che già ce lo anticipava sull’intermezzo
quasi downhome di Well Enough Alone, qui con l’omaggio al caro
B.B. King di Sweet Thing, restituendoci
cos’altro di meglio ci possa capitare da un album di tal fatta, commerciale
ma con gusto, e qualche chicca.