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classic soul di
Fabio Cerbone (22/12/2016)
Con la prematura scomparsa di Sharon Jones, e il recente annuncio di una stato
di salute precario per Charles Bradley (a cui auguriamo una pronta guarigione),
a tenere alto il vessillo del soul revival è rimasto il più defilato Lee Fields.
Un personaggio meno chiacchierato dei colleghi citati, ma altrettanto degno di
sedere allo stessotavolo (e il gioco con la copertina è voluto, se lo avete
pensato), soprattutto per la sua storia personale e un curriculum artistico molto
simile, che risale alla metà dei seventies, quando Let's talk It Over,
il singolo e l'album omonimo, lo trasformarono in un piccolo culto.
È
insomma un "sopravvissuto" ai circuiti funk e soul più marginali, titolare di
una gavetta che la ha tenuto a galla in anni non propriamente felici per chi,
come lui, aveva in testa il sound grondante di James Brown e la tradizione più
nobile del genere, prima di essere investito come tanti dagli stravolgimenti della
disco music e di un linguaggio r&b che si faceva sempre più attento alle lusinghe
del pop. Fields ha tenuto duro, si è rivolto al cosiddetto chitlin' circuit della
musica nera, ha adattato un poco il suo repertorio prima di fare ritorno e inventarsi
una nuova carriera nell'ultimo decennio, sospinto dalle incisioni con il giro
della Daptone (ancora Sharon Jones come punto di riferimento) e della sussidiaria
Truth & Soul fondata da Lee Michaels. Proprio sotto la direzione di quest'ultimo,
strumentista tuttofare e direttore d'orchestra degli Expressions, Lee Fields
completa una sorta di trittico della maturità, dando seguito a Faithful Man ed
Emma Jean con un album più meditato, che sacrifica in parte il funk del mentore
James Brown per abbracciare una ballata dalle languide trame soul psichedeliche.
Nulla in verità che non sia già stato affrontato, ma il tono si è reso
più intenso e romantico, la voce emozionale nel cantare le penitenze dell'amore
e l'affetto per la sua donna, in Special Night,
brano apripista che si lascia cullare da un organo sixties e colloca la strumentazione
in un bagno di riverberi. Le scelte produttive di Michaels segnano i passaggi
migliori del disco: la voce di Fields è in primo piano, sezione fiati e ritmica
si stagliano sullo sfondo, così come i cori che accarezzano I'm Coming Home
e una classica ambientazione southern soul in Work to
Do, tra gli episodi più deliziosamente retrò del disco, o ancora della
gemella Let Him In, arrangiamento dai profumi Stax ed invocazione del fantasma
di Otis Redding. A colpire maggiormente tuttavia è l'atmosfera di Never Be Another
You, un groove che accarezza, qualche live tocco di elettronica, percussioni e
trilli di piano in sottofondo che sarebbero piaciuti a Marvin Gaye.
Lee
Fields si adatta come un guanto alle sonorità create dagli Expressions, ma cede
spesso alla tentazione di tornare verso il suo habitat più naturale: Lover
Man è la palestra per scaldare la voce, grido disperato che incalza
sotto i colpi di fiati e chitarre pungenti prima di librarsi nel pulsare funk
di Make the World e
Where Is the Love, conferma del titolo di "Little James Brown" che
gli affibbiarono ad inizio carriera.