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I musicisti che fanno del revival (inteso in senso lato) il proprio codice espressivo prima o poi dovrebbero affrontare la questione: rimanere confinati nella riproposizione del passato o evolversi in qualcosa di originale? Limitarsi a riprodurre un linguaggio antico, o aggiornarlo alla contemporaneità? I Carolina Chocolate Drops hanno vinto facile la loro scommessa iniziale: dimostrare che una band di giovani afroamericani è in grado di rivitalizzare una tradizione (erroneamente) associata al folklore musicale bianco - essenzialmente mountain music e bluegrass, anche se la proposta è più eterogenea. Fuoriclasse degli strumenti a corda (banjo a quattro e cinque corde, resonator, fiddle, mandolino, eccetera), studiosi e custodi della materia, i tre droppers hanno mietuto con agio consensi e premi. E poi? Poi è venuto il difficile. Il penultimo album Genuine Negro Jig palesava qualche tentennamento di direzione: accanto ai traditionals sono timidamente comparsi brani originali e cover in chiave folk di canzoni pop (Hit'em up Style di Blu Cantrell, niente meno). Quest'ultima strada è assai scivolosa: rischia di tramutare i CCD nella versione "colta" degli Hayseed Dixie, o qualcosa di simile. Justin Robinson ha quindi deciso di sfogare le proprie velleità d'autore a se n'è andato a inizio 2011 a coltivare un progetto indie-folk (Justin Robinson & the Mary Annettes). Dom Flemons e Rhiannon Giddens hanno ricompattato il gruppo reclutando un altro polistrumentista, Hubby Jenkins, insistendo invece sulla rotta della contaminazione: prima la collaborazione con la band "punk-folk balcanica" Luminescent Orchestrii ed ora il primo disco del dopo-Robinson. C'è un po' meno mountain music e un po' più di spezie varie, anche se la loro miscela old-time è ancora riconoscibile: quella che è aumentata è semmai la voglia di pasticciare con gli ingredienti. Buddy Miller, che produce, li ha chiusi in una stanza e li ha registrati dal vivo: scelta intelligente, perché è nella dimensione live che la loro riesumazione del passato prende davvero vita. La musica si è fatta un po' più ritmica (ascoltare l'iniziale numero da string-band Riro's House per cogliere le differenze con il passato) e più meticcia (un ruolo importante va riconosciuto a Adam Matta, percussionista e responsabile degli interventi di beatbox - a sottolineare il link tra black music delle origini e hip hop), senza sacrificare credibilità, rigore, genuinità. Niente cover "strane" stavolta (il ripescaggio più recente, Mahalla, viene dal repertorio del bluesman sudafricano Hannes Coetzee, certo più vicino di Blu Cantrell alle loro corde), e i brani originali, anche quando ammiccano al "pop" (le movenze funky di Country Girl), non scadono mai nella parodia. Tra echi ragtime (Boodle De Bum Bum), sussulti stomp (Ruby, Are You Mad at Your Man?), ancestrali call & response (Read'em John), schegge di jugband music (No Man's Mama) e piedmont blues (Po' Black Sheep), c'è posto anche per una tenue ninna nanna (la title track), in cui Rhiannon spreme vibranti inflessioni soulful dalla sua voce. Leaving Eden è forse l'opera più variopinta e soddisfacente dei CCD, o almeno se la gioca alla pari con la raccolta Heritage (2007), di cui evoca (volontariamente?) anche l'impostazione iconografica in copertina. In attesa di risposta al quesito iniziale, abbiamo qualche motivo in più per sentirci appagati dalla strada percorsa dai CCD fino a qui.
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