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soul blues
di Gianni Del Savio (26/10/2020)
Da noi forse meno apprezzata
di come dovrebbe, Shemekia Copeland, ora poco più che quarantenne,
ha inanellato una serie di album e di “presenze live” di tutto rispetto,
ottenendo vari riconoscimenti ufficiali (Grammy e altro). Una “summa”
artistica e stilistica che ne nobilita la miscela blues, r&b, soul e derivati,
anche ripercorrendo e rinnovando (a suo modo) sentieri interpretativi
di figure di riferimento quali Bessie Smith, Koko Taylor, Etta James e
dell’ancora grande Mavis Staples… La sostanza dell’album - registrato
a Nashville - è spessa e coinvolgente, grazie anche alla produzione del
chitarrista Will Kimbrough, autore di quasi tutti i brani insieme
a John Hahn. Oltre a lui, si evidenziano Lex Price (basso) e Pete Abbott
(batteria), ai quali si aggiungono di volta in volta altri strumentisti
e, occasionalmente, due coriste. In copertina Shemekia rivolge una “dedica
speciale” a Dr. John, a John Prine (ospite nel precedente album, America’s
Child) e alla madre (“a hero still here”).
I vari temi puntano alla sostanza della vita di tutti i giorni e dei problemi
sociali, economici, comunicativi e razziali, nonché dei rapporti interpersonali,
con l’intento di riproporre solidi riferimenti e “senso civile”, in un
tempo in cui sicurezze e socialità sono quasi sbriciolate. Apre Clotilda’s
On Fire, dedicato all’ultimo vascello schiavista, approdato
in Alabama nel 1859 (con un tentativo del capitano di farne poi sparire
le tracce): mid-tempo blues con sfumature chitarristiche jazz (Jason Isbell),
che mette in luce la sua pregnante voce. Uno spessore stilistico che l’avvicina
alla grande Mavis Staples nella successiva Walk
Until I Ride: ballad di stampo blues-gospel, con supporto coristico,
che è una delle vette dell’album insieme ad Apple
Pie and A .45, dalla ritmica rock-blues, dove il suo canto
trova un clima sonoro (chitarra-basso-batteria) perfetto per il tema sulla
violenza.
Il r&r She Don’t Wear Pink è strumentalmente più “affollato”: tre
chitarristi tra cui Duane Eddy(!), per un’accattivante passaggio. Un altro
chitarrista “di peso storico”, Steve Cropper - ospite anche nell’album
precedente -, impreziosisce il lento blues intimista
In The Dark (l’originale
è di Junior Parker), in cui la Copeland si esprime con classe, e con sfumature
vocali che l’avvicinano a Bettye Lavette; un simile riferimento stilistico
lo ritroviamo in No Heart At All, mid-tempo semiacustico e “recitato”,
con sottolineature rock-blues della chitarra slide. Il clima sentimentale
caratterizza anche Love Song, fluido e leggero omaggio al padre
e autore, Johnny Copeland (’37-’97), eccellente bluesman. Dedicato invece
a Dr. John, Dirty Saint è un mid-tempo di discreta fattura e dal
canto seminarrativo-declamatorio, sostenuto dall’ hammond (Phil Madeira).
Per “originalità” si fa preferire lo sguardo rivolto agli Stones:
Under My Thumb, col basso in bella evidenza, le coloriture
ritmiche corali, lo schioccare delle dita (snappin’). E vengono ancora
in mente i “rotolanti” in Money Makes You Ugly, song in bella forma
r&r-blues, con tanto di cavalcata chitarristico-ritmica e con la bruciante
voce di Shemekia. Give God The Blues ha un titolo che suona ironico
e una trama acustica lievemente jazzata, cui lei offre un’adeguata sostanza
interpretativa, che sale di tono in She Don’t Wear Pink, dalla
tessitura r&r in accelerazione.
Non è in chiusura d’album, ma proprio Uncivil
War tiene significativamente insieme il tutto, col suo ritmo
di valzer lento: meditativo appello all’unità, alla speranza, contro la
divisione dei popoli (è questa la “guerra incivile”). Tra spiritual e
country ballad, con chitarra e banjo e lieve tocco hammond, il brano è
una pregnante “litania”, con reiterata e appassionata declamazione del
titolo; una preghiera rivolta a tutti, perché civiltà non sia parola vuota…