| | Black
Joe Lewis
Electric Slave
[Vagrant
2013]
www.blackjoelewis.com
File Under:
garage r&b di
Fabio Cerbone (06/09/2013) | |
Bordate di chitarre fuzz e bassi in totale saturazione travolgono al primo ascolto
di Skulldiggin, cosa diavolo è successo a
Black Joe Lewis? L'apertura di Electric Slave è una dichiarazione
di intenti che non lascia dubbi al riguardo: il nuovo corso del musicista texano
sposta nettamente il baricentro della band verso un garage rock dinamitardo e
fuori controllo, alzando il coefficiente elettrico e sacrificando, almeno in minima
parte, la componente black del suono. La sezione fiati rientra subito dalla finestra
nei brani successivi, sia detto, spargendo ancora quel sapore di furioso r&b e
messa in scena blues che alimentava il sacro fuoco di Scandalous o Tell 'Em What
Your Name Is, ma mentre agli esordi Black Joe Lewis si permetteva di citare in
copertina Lightnin' Hopkins e di saccheggiare un intero secolo di musica nera,
passando dai sordidi juke joint di R.L. Burnside ai riti soul pagani di James
brown, oggi i baccanali di una indiavolata Young Girls
o l'autentica macchina da riff di Dar Es Salaam
sono il segnale di una spavalderia da sfoggiare con arroganza.
Si dispiaceranno
un poco quelli che lo avevano impacchettato in fretta e furia nella nuova ondata
di revival soul, ma che il ragazzo fosse un prigioniero del rock'n'roll lo si
era capito fin dal primo momento. Ecco allora una band rinnovata (e la dicitura
Honeybears è scomparsa dalla ragione sociale), dove alcun collaboratori storici
(soprattutto il chitarrista Zach Ernst) vengono rimpiazzati da altri brutti ceffi:
sulla copertina sono tutti agghindati come una band di mercenari del west, mentre
il buon Black Joe Lewis pare un incorcio Taj Mahal prima maniera e Sly Stone,
alla guida di un manipolo di rinnegati. Le dinamiche di Electric Slave - metafora,
dice il nostro, della schiavitù dalla tecnologia moderna - sono tuttavia ben lontane
dalla tradizione del maestro Mahal: qui pare semmai di assistere ad una variante
di altre giovani band southern garage come John the Conqueror o Lee Bains, con
l'aggiunta di un canto da urlatore nato che sfiora l'irriverenza del punk.
Il
cortocircuito con i fiati produce effetti da stordimento in Guilty
e The Hipster, un po' come se gli Stooges
fossero capitati per sbaglio con il furgone davanti ai Muscle Shoals in Alabama
(gli studi sono però i Church House di Austin): il sax non ha l'effetto delirante
di Steven MacKay in Fun House, ma l'attitudine sembra essere molto simile. Lavorando
con Stuart Sikes e John Congleton (dai White Stripes a Cat Power fino agli Okkervil
River), è probabile che qualche tratto più disinibito e "alternative" sia finito
nella testa e e nella voce di Joe Lewis: Vampire
potrebbe uscire da una session tra i Screamin' Jay Hawkins e i Black Keys (anche
se assomiglia a Spoonful e Willie Dixon chiederebbe i diritti), mentre in My
Blood Ain't Runnin' Right tiene a freno la foga e forse azzecca il
brano più strutturalmente rock e accattivante del disco. Ma in fondo, quando attaccano
la galoppata r&b di Golem e le danze funky di Come
to My Party e ci invitano maliziosamente alla personale festa del gruppo,
è chiaro che Black Joe Lewis e soci non hanno rinunciato a certe caratteristiche,
le hanno solo surriscaldate per vedere l'effetto che avrebbero ottenuto.
Giudicando
dall'abbandono, anzi diciamo pure per una volta dal gran baccano, Electric Slave
ha raggiunto l'obiettivo: quello di essere uno dei rock'n'roll album più sfacciatamente
sguaiati e divertenti del 2013.
|