Smessi
i panni del progetto Middle Brother, in cui Taylor Goldsmith incontrava
spiriti affini e sognava orizzonti comuni con altri giovani autori (John McCauley
e Matthew Vasquez, rispetivamente dai Deer Tick e Delta Spirit) alla ricerca del
tempo rock perduto, le canzoni migliori finiscono per fortuna nella sacca dei
Dawes, principale band di riferimento formata con il giovanissimo fratello
Griffen dietro i tamburi della batteria. Nothing is Wrong accresce
le quotazioni del gruppo californiano, fra i principali animatori di un ritorno
alle visioni folk rock della West Coast, oggi peraltro battezzati dalla presenza
non casuale di Jackson Browne, voce aggiunta nel finale della strepitosa
cavalcata Fire Away. Idealmente siamo trascinati
negli stessi innamoramenti musicali che in queste stagioni hanno generato, non
solo sulle sponde della costa del Pacifico, le avventure di Truth and Salvage
Co., naturalmente i già citatri Delta Spirit e Deer Tick, così come i campioni
del rinascimento "seventies" Fleet Foxes e i più chiacchierati Band of
Horses, un pugno di band con personalità distinte ma tutte accomunate da una fresca
rilettura del passato che l'acuto critico inglese Simon Reynolds non esiterebbe
a definire "Retromania".
Rispetto però alla radice indie rock
che sembra popolare le spinte della maggior parte dei musicisti appena menzionati,
i Dawes scelgono la via più diretta e semplice, puntado certamente sugli impasti
vocali, sulla rinascita del cosiddetto suono del Laurel Canyon, pregando i santini
di CS&N, del padre putativo Jackson Browne, ma dando l'impressione che il cuore
di Nothing is Wrong sia la bellezza della canzone, la sua disarmante costruzione
melodica. Più elettrico e spumeggiante del già prelibato esordio North
Hills, ancora visionato dala produzione di Jonathan Wilson, il
nuovo lavoro amplifica i ganci pop della scrittura di Taylor Goldsmith, mettendo
in comunicazione il tono nostalgico delle storie, i brevi cenni e le confessioni
autobiografiche con la speranza insita nelle armonie: nascono così ballate dove
gli assoluti protagonisti, piano e chitarra, dialogano tenendo dritta la barra
della melodia, portando The Way You Laugh
verso una marcetta celestiale con una slide che evoca il migliore David Lindley,
oppure chiudendo sulle note languide, tristanzuole di A
Little Bit of Everything, altro saggio di tenera West Coast aggiornato
al 2011.
Si accennava tuttavia ad una spinta più elettrica, frutto evidentemente
dalla passione alimentata sulla strada, forse dal fatto che persino Robbie Robertson
(The Band è un altro imprescindbile tassello del suono Dawes) sia stato stregato
dei ragazzi, imbarcandoli come backing band dei suoi concerti: da qui sbucano
autentici singoli killer quali Time Spent in Los Angeles
e If I Wanted Someone, la seconda un country
rock rutilante che candida i Dawes tra i più credibili discepoli dei Jayhawks,
mentre My Way Back Home ritorna sui passi
di una ballata onirica, un folk pop flutuante in cui gioca un ruolo centrale l'organo
(c'è anche l'ospite Bemmonth Tench dagli Heartbreakers…e il cerchio sembra davvero
chiudersi sulle influenze). C'è ancora tempo per le scintillanti rincorse rootsy
di Coming Back to a Man e per l'esplosione
"byrdsiana" di How Far We've Come, campo di
prova per la vocalità accentuata della band, mai invadente però o tentata da fastidiosi
barocchismi. La moderazione e il tono pacato con il quale Taylor Golsmith e compagni
provano a conquistarci sono infatti i tratti distintivi di una piccola band che
non sembra ambire alla grande impresa: piacciono proprio per questo loro ingenua
purezza, forse mascherata dietro un'astuzia da veri sacchegiatori del passato.
E se per qualcuno tutto ciò rifletterà un segno di debolezza o di normale semplicità
poco importa, a noi pare di avere trovato un'altra piccola oasi di eccellenza
nel giovane rock americano. (Fabio Cerbone)