Kasey
Anderson & The Honkies Heart of a Dog
[Red
River 2011]
Fino a ieri Kasey Anderson,
cantautore dello stato di Washington, era il classico folksinger nè carne né pesce,
sempre dignitoso ma mai memorabile, che continuava a licenziare una serie di dischi
incapaci di svettare dal mucchio nonostante le cure di uno specialista del calibro
di Eric Roscoe Ambel, ex Del Lords. Tra folk e ballate elettriche troppo uguali
ad altre il rischio concreto era di abbruttirsi in un limbo esiziale per uno ambizioso
e dotato di un discreto talento come lui. Bisognava abbandonare vecchie certezze
che cominciavano a creparsi e rimettersi in discussione. Ed ecco che un anno dopo
Nowhere Nights,
Anderson ha resettato tutto, ha defilato il suo ego (come dimostrato dall’intestazione
condivisa del disco) e si è messo nelle mani di una nuova band che lo ha catapultato
nel sound rinnovato e potenziato, finalmente convincente, in diversi momenti addirittura
esaltante che permea l’album. Infatti se Heart of a Dog (citazione
da Bulgakov) risulta uno smash vincente, gran parte del merito va ascritto agli
Honkies, jam band costituita ad hoc e lasciata libera di scorazzare nella
sala di registrazione come un cavallo imbizzarrito.
Su tutto domina la
chitarra pirotecnica di Andrew McKeag (Presidents of the USA, ma anche Long Winters
e Supersuckers nel suo curriculum ventennale), uno che, per dirla col cinema,
ruba la scena all'attore protagonista, ma non sono da meno il puntuale basso di
Eric Corson e il perfetto drumming di Mike Musburger. Non c’è da sorprendersi
dunque, che gli Honkies si esaltino davvero nei brani meno controllati come The
Wrong Light (un bluesaccio elettrico laido e ipnotico trascinato da
un riff memorabile), Mercy (scatenato party
stonesiano con spruzzate di funk e incroci pericolosi tra chitarre e fiati nel
finale), Sirens and thunder (sfrenato blue
collar con organo e feedback che si rincorrono), My Baby
is a Wrecking Ball, Revisionist History Blues
(sarabanda mirabilmente sgangherata che, tra Dylan e Tom Waits, lancia a tratti
addirittura lampi di Paisley Underground), ma soprattutto nell’irresistibile andazzo
di Kasey Anderson’s dream (titolo autocelebrativo
o omaggio al freewheelin’ Bob Dylan?), sogno che puzza di zolfo, autentica perla
lanciata in orbita (pardon, negli inferi) da chitarra e basso che sferragliano
sopra e sotto il canto scazzato di Anderson.
Nel solco di un roots scalpitante
e comunque ispirato si collocano invece Exit Ghost e
la conclusiva Save it for Later, mentre i
brani più rallentati, quelli che rimandano maggiormente al Kasey Anderson pre
Honkies, finiscono per diventare dei necessari break messi lì per rifiatare tra
un baccanale e l’altro. Certo non si tratta di riempitivi nemmeno in questo caso,
perché Your Side of Town e My
Blues, My Love sono due accorati slow alla Matthew Ryan che non sfigurano
affatto in mezzo al ben di dio di cui sopra. Se si tratti di una svolta nella
carriera sin qui non luccicante di Kasey Anderson non è dato sapersi e neanche
ci interessa più di tanto; per ora Heart of a Dog è già tanta roba, uno di quei
sempre più rari dischi in cui il piacere palpabile di chi ha suonato (talvolta
in coda ai brani si odono le risate di compiacimento della band, sottolineate
dallo stesso Anderson) si specchia nel godimento di chi ascolta. E di godimento
in questa bella sorpresa di inizio anno ce n’è parecchio. Garantito. (Gianuario
Rivelli)