This nin't never be my home: in Bellingham
Blues, canzone che apre il suo terzo disco intitolato Nowhere
Nights, Kasey Anderson lo ripete quasi si trattasse di un mantra,
prima di lasciarsi definitivamente alle spalle otto anni di amori, amicizie, vita
vissuta nella cittadina dello stato di Washington. Si lecca le ferite, fa terra
bruciata intorno a sé e si dirige a Portland, suo luogo d'origine, dove i brani
di Nowhere Nights hanno preso forma compiuta, ancora una volta sotto le cure del
produttore Eric "Roscoe" Ambel. Quando si mette di mezzo l'ex Del Lords
solitamente la verità di un autore viene a galla: non sempre accade però a questo
giovane songwriter, che sul ruvido sussurro della voce, tra le pieghe malinconiche
del canto, si gioca una parte di quel fascino da cantore di provincia che ha già
conquistato diversi sostenitori. La struttura folk rock di queste ballate ricorda
da lontano il battito urbano che apparteneva agli esordi di Matthew Ryan, magari
con un accento più coinvolto dalla raucedine del country, ma manca di un'invenzione,
di uno scatto che impedisca al repertorio di suonare spesso e volentieri troppo
appiattito.
Ciò che resta in mano è semmai un pugno di piccole, inquiete
confessioni travolte fra amore e nostalgia, per un passato da dimenticare e per
una relazione irrimediabilmente finita. Anderson cerca ispirazione nei suoi "luoghi
oscuri" e se ne esce con un disco a intermittenza, dove folk song trasparenti
e fragili si alternano a graffianti rock'n'roll dai risvolti elettrici. Innegabile
che le chitarre di Ambel (con lui la band che accompagna Kasey Anderson dal vivo,
tra i quali il chitarrista Dan Lowinger e l'organo di Lewi Longmire) inseguano
gli scrosci dell'anima dell'autore: All It Up,
Torn Apart, Nowhere
Nights scommettono l'intera posta su semplici riff (forse troppo semplici),
un suono scarno e possibilmente dal vivo che riesca ad esaltare l'interpretazione
"sporca" di Anderson, anche se all'ennesimo up&down di Sooner/Later
(Tom Petty passando per Ryan Adams, se l'idea rende) il gioco di specchi con le
fonti di ispirazione comincia a stancare.
Il limite principale di Nowhere
Nights sta proprio in questa parsimoniosa scelta degli arrangiamenti: potrebbe
anche risultare la soluzione più calzante per il songwriting di Kasey Anderson,
ma deve poi affrontare una innegabile monotonia di fondo. E quando a prendere
il sopravvento sono le tonalità bisbigliate, malinconiche di Home,
Leaving Kind e Like
Teenage Gravity l'impasse è quanto mai evidente: non si tratta in sé
e per sé di canzoni scialbe (e la qualità dei testi men che meno, basterebbe la
struggente I Was a Photograph, dedicata alla
figura del soldato James Blake Miller di stanza in Iraq), eppure non escono dal
recinto della normalità dei mille folksinger. Qualcuno pare avere intravisto fra
le note di Nowhere Nights una forza inaspettata, un nuovo interessante autore
da portare alla luce: qui francamente non ce ne siamo accorti, giacché di particolari
rivelazioni o passaggi di testimone non se ne intravedono all'orizzonte. (Fabio Cerbone)