Leeroy
Stagger & The Wildflowers Little Victories
[Blue
Rose 2010]
Il sesto capitolo discografico di Leeroy Stagger non si stacca da
quella soggezione che mi era capitato di sottolineare già con il suo predecessore,
Everything
is Real, disco di una piacevole, briosa svolta elettrica dalle colorazioni
Americana, che tuttavia lo metteva in fila alla corte di Ryan Adams e di tutti
quei pretendendenti, che in un momento di appannamento e assenza del titolare,
stanno affollando la scena. Little Victories piacerà ancora per
le rotondità elettriche e il country rock impastato di melodia e persino fragranze
soul, ma non sembra essere quel salto di categoria che ci si poteva attendere
dopo le positive promesse del recente passato. Il giovane songwriter - a questo
punto esponente di prima fila della fronda canadese del moderno rock delle radici
- rinsalda il sodalizio con la band, ribattezzata The Wildflowers, condividendo
canzoni e suoni che certamente danno la dimensione di un lavoro più corale e cesellato
dei dettagli.
La crescita è custodita negli arrangiamenti pop di Everyones
on Drugs, nuova riflessione sulle pericolose dipendenze sconfitte dallo
stesso Stagger, nel volteggiare rock di Shall Will Be
Received, nell'etereo passaggio di Long way
Home, in uno swamp dai contorni sudisti intitolato Holy
Water, ma soprattutto nella ballad soul Good
Things, che chiama all'appello l'organo di Geoff Hillhorst, i fiati
di Daniel lapp e la seconda voce dell'ospite Romi Mayes, per sfiorare un
piccolo gioiello, purtroppo isolato nel contesto di Little Victories. Album in
sé realizzato con un retrogusto dolce e malinconico, tutto incentrato su quella
dualità fra rock'n'roll e Americana che non nasconde mai le sue nobili origini
in fatto di songwriting (George Blues, tristanzuola
folk song che ripesca il Townes Van Zandt più cupo; oppure la chiusura struggente
con Love Will Let You Down, ambiziosa ballata
pop che si colora di un'armonia beatlesiana), Little Victories non mancherà di
solleticare, come anticipato, gli orfani del Ryan Adams (ancora e sempre lui,
sentite la fotocopia di Hardtown) più limpido
e mainstream (i tempi di Gold, per intenderci), tra le evoluzioni della steel
di Bob Egan in Way Down in the Bottoms
e Sit Around This House (country sobbalzante
ma un po' troppo di maniera) e le recriminazioni e innocenti credenze di una I
Believe in Love che rispolvera il più semplice dei mainstream rock, sul quale
soffia il battito della strada.
Cosa manca dunque a Leeroy Stagger per
convincere del tutto e non sembrare a volte un inoffensivo rocker (Waste
of a Wedding) o la confusa figura che arranca in Poor
Little Rockstar? Le sue "piccole vittorie" rappresentano certamente
una galleria di relazioni, storie personali, cadute e risalite, a cui adesso occorrerebbe
proprio dare una scossa. Una vera vittoria insomma, grande, definitiva, che lo
spinga verso l'alto e non nella direzione opposta, nella grande confusione dei
tanti irreprensibili outsiders. (Fabio Cerbone)