Shearwater
The Golden Archipelago
[Matador/Self 2010]
Idealmente posto a chiusura di un trittico inaugurato nel 2006 con Palo Santo
e portato al pieno compimento con lo struggente Rook
di due anni successivo, The Golden Archpelago conferma la fascinazione
assoluta degli Shearwater e in particolare del loro leader Jonathan Meiburg
per il rapporto drammatico fra natura e uomo. Là dove vi era un sentore, nemmeno
così nascosto, di concept, oggi pare chiaro a tutti che l'obiettivo della band
sia esattamente quello di ridare slancio alla pratica di un rock epico e sontuoso,
che sappia farsi quasi enfatico. Dall'estasi elettrica e dai sussurri folk del
predecessore qui sembra davvero che gli Shearwater abbiano calcato troppo la mano:
fin dalla copertina degna di un numero del National Geographic, The Golden Archipelago
è un album dove la grandeur musicale del gruppo si fa eccessiva, complice
probabilmente la produzione sopra le righe di John Congleton (St. Vincent, Black
Mountain, Polyphonic Spree), dando troppo risalto alle atmosfere, agli scrosci
di melodia e alle percussioni, senza curarsi invece del senso più profondo delle
canzoni.
In una definizione sola The Golden Archipelago è semplicemente
manieristico, caratteristica che poteva anche affiorare in passato nella candida
voce di Meiburg, eppure che oggi pare prendere il sopravvento su qualsiasi altro
contenuto. Il ritratto che il vocalist - appassionato ricercatore che ha lavorato
calpestando il suolo di Falklands, Terra del Fuoco, Galapagos, Madagascar ecc.
- desidera mettere al centro del disco è un complesso intreccio fra il progresso
(o presunto tale) e la vita dell'uomo in quei particolari mondi, anche filosofici,
rappresentati dalle isole. Tutte le canzoni, a partire dal coro degli abitanti
dell'atollo di Bikini che introducono Meridian,
pongono al centro questa dualità, spingendo Meiburg a suscitare ricordi personali
(il nonno operatore radio per l'esercito americano fra le isole del Pacifico)
e riflessioni di carattere più universali.
Affascina come sempre il
"concetto" per l'appunto, un po' meno la stesura musicale, che dalla magniloquenza
di Black Eyes alle stratificazioni ritmiche
di Landscape At Speed e soprattutto di Corridors,
forse tra gli episodi più trascinanti e singolari, tende spesso a stendersi su
quelle suggestioni vocali tipiche di Meiburg, le quali spesso diventano stucchevoli
(Hidden Lakes, God
Made Me, Uniforms). Il ruolo più
accentuato svolto dal piano e dagli arrangiamenti di Congleton con il gruppo (completato,
ricordiamo, da Kimberly Burke, Thor Harris, Kevin Schneider e Jordan Geiger )
si fanno sentire portando gli Shearwater dalla malinconia di Leonard Cohen o di
certa matrice folk originaria verso una sorta di malinconia pop un po' troppo
gratuita. (Fabio Cerbone)