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Shearwater
Rook
[Matador/ Self 2008]
La voce di Jonathan Meiburg è un cadido sussurro, una calda e malinconica
coperta che ripara con una melodia struggente, aperta improvvisamente
ad uno scroscio di enfasi, chitarre elettriche e fiati a metà brano, per
tornare infine alla quiete di partenza: On the
Death of the Waters è la sintesi di un disco pacifico ma squarciato
da nubi minacciosse, un assemblaggio di dolcissime armonie pop che di
tanto in tanto si affacciano sull'orlo dell'abisso e prendono qualche
strada più impervia. La bussola però è sempre quella di un indie rock
elegiaco che profuma di tradizione folk sotto le ceneri: pianoforte, archi,
trombe, dulcimer, vibrafono guariniscono il piatto mantenndo nonostante
tutto una parsiomia invidiabile negli arrangiamenti.
Rook, secondo capitolo degli Shearwater in casa Matador è il loro
disco più ambizioso, completo e omogeneo in carriera, perchè dalle esperienze
accumulate in passato (a cominciare dal predecessore, Palo Santo, ristampato
in una versione ampliata nel 2007) è nata una espressività nuova e originale,
ormai affrancata dagli ingenerosi paragoni con gli Okkervil River. Essendo
nati come una sorta di progetto parallelo, di collaborazione attiva fra
Meiburg e Will Sheff, leader dei citati Okkervil River, gli Shearwater
hanno sempre sofferto questo ingrato accostamento, che non ha mai esaltato
del tutto le qualità di una band a se stante nel panorama indie americano.
Rook è il sigillo di una avventura lanciata verso grandi sfide, e soprattutto
uno dei dischi più commoventi di questo 2008: Howard Draper, Thor Harris
e Kimberly Burke, di comune accordo con Jonathan Meiburg hanno allestito
una autentica allegoria fatta di melodrammi e preghiere, prendendo come
spunto metafore sul mondo animale e in particolare sulla vita degli uccelli.
Non si pensi ad un concept vero e proprio, anche se quella strana, affascinante
copertina cerca di attirare la nostra attenzione con un richiamo ancestrale.
La musica di Rook è a sua volta un scherzo del tempo, collocata in un
universo parallelo, sospesa: sia quando accarezza un folk da camera celestiale
(la struggente Leviathan, Bound, l'eterea
Lost Boys e la gemella I
Was a Cloud) sia quando scoppia in furenti rock (i sapori new
wave declamatori di Century Eyes)
e ballate elettriche dalla sottile seduzione (la stessa Rook,
oppure la ruvida The Snow Leopard),
la musica degli Shearwater riesce a mantenersi fluttuante in uno spazio
indefinito.
Merito del songwriting immaginifico di Meiburg, della sua vocalità così
spirituale (a dir poco toccante nel finale di The
Hunter's Star), ma soprattutto delle tonalità create ad arte
dalla band, sempre a rischio di sembrare artefatte eppure mai così sincere.
Un gioco di tensione e distensione immerso in una calma apparente.
(Fabio Cerbone)
www.shearwatermusic.com
www.myspace.com/shearwater
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