Per
molti rimane ancora quella strana voce abbagliata dalle frequenze di una "Mexican
Radio", all'alba degli anni '80, oppure meglio quello spietato cantore del
"Big Heat" californiano, fra ritmi sintetici e new wave stravolta da
orizzonti rosso fuoco, mentre Stan Ridgway è divenuto nel tempo uno dei
songwriter più originali e defilati della sua generazione, un regista (è il caso
di dirlo, visto il taglio cinematografico espresso dalla sua musica) dell'anima
americana, il quale ha saputo cogliere le sfumature e le distorsioni della società
che lo cincorda con una bella dose di umore nero. Neon Mirage in
questo percorso - sempre parco, quasi silenzioso - fa l'effetto della agognata
maturità, di una sintesi di quanto raccolto in precedenza, puntellando le conquiste
migliori e dando una dimostrazione di saggezza ed equilibrio. Come dire che non
sarà forse il suo capolavoro, ma sfodera una tale sicurezza di scrittura e una
profondità inedita da consacrare Ridgway definitivamente tra i grandi outsider
del suono americano di frontiera. Lui è sempre inchiodato li, tra un'armonica
"morriconiana", una chitarra riverberata, un tang sound alla Johnny Cash, un ritmo
campionato e una tastiera dal rintocco sinistro (la compagna Pietra Wexstun),
mettendo insieme contrasti insanabili come country e post punk, pop sintetico
e blues, persino commedia musicale e stramberie assortite.
Meno convulso,
ricco e dispendioso del precedente, altrettanto valido, Snakebite-Blacktop
Ballads & Fugitive Songs, Neon Mirage è un disco che ne segue tuttavia
il percorso di moderazione inaugurato dallo splendido Black Diamond a metà anni
'90, ovvero sia uno Stan Ridgway più folksinger e tradizionalista, che guarda
caso decide di aprire il nuovo lavoro con un ripescaggio dal citato Black Diamond,
una versione rallentata e splendidamente acustica di Big
Green Tree, prodotta e suonata di comune accordo con Dave Alvin.
Ma è l'intero album ad echeggiare l'idea di un'America nascosta, riflessa nei
motel, nella periferia, nelle luci al neon, appunto, di una vita lungo i bordi,
tra le schegge impazzite del sogno americano: ecco dunque la ripresa di Lenny
Bruce, ballata dell'amato Bob Dylan che Ridgway asciuga in un racconto
folk essenziale, o ancora la spettrale Flag Up on a Pole,
Americana in salsa elettronica, riflessione sulla guerra e il patriottismo nazionale
avvolta da un sound sintetico a ritmo reggea. Eppure il fulcro di Neon Mirage
è da ricercare soprattutto nella sua superficie più scura e intima, la stessa
che ha segnato l'anima di Ridgway con una serie di lutti importanti: innanzi tutto
la scomparsa del padre, punto di riferimento nella stessa educazione musicale
di Stan, quindi la scioccante perdita di Amy Farris, violinista già alla
corte delle Guilty Women di Dave Alkvin, che qui segna buona parte delle session
con le sue orchestrazioni, poco prima di togliersi la vita con un suicidio che
ha colto d'improvviso amici e colleghi.
Delle loro ombre sono in definitiva
ammantate Halfway There, dolcissima ballata
folk, Behind the Mask, quasi trasparente nella
sua delicatezza e inedita anche per la vocalità dello stesso Ridgway, toccando
tuttavia il vertice nella torbida Turn a Blind Eye,
sorta di matromonio fra Morphine e colonna sonora di un b-records (il sax è dell'ottimo
Ralph Carney) e nell'assai più sorpredente blues elettrico da late hours di Scavenger
Hunt, con la chitarra di Rick King a graffiare la pelle. Eclettico
come suo solito (Desert of Dreams è un musical
che danza sul confine messicano, pasticcio di suoni che si ribalta in un piccolo
capolavoro kitsch), tanto progressista quanto conservatore in fatto di tradizione
(This Town Called Fate è una cavalcata country
degna di Marty Robbins; Neon Mirage uno strumentale
che riprende l'amore per gli spaghetti western), lo Stan Ridgway di Neon Mirage
parla una volta di più al cuore nero dell'America, oggi però scrutando con attenzione
all'interno della sua stessa vita. Ne esce allo scoperto con uno dei dischi più
personali della sua carriera. (Fabio Cerbone)