A chiunque pensava che Stanard "Stan" Ridgway
si fosse perso per strada, anche soltanto rispetto ai tempi gloriosi dei
Wall Of Voodoo e della loro indimenticata "country-wave", oppure a chi
pensava si fossero un po' appannati i tratti più caratteristici della
sua vena, ecco giungere una risposta che non ammette repliche, deroghe,
eccezioni. Snakebite è uno dei dischi dell'anno. Punto.
Riporta il buon vecchio Stan ai fasti di un The Big Heat ('86) o di un
Mosquitos ('89). Forse, dovendo trovare un parallelo calzante all'interno
della non fluviale discografia di Stan, il disco più affine a questo potrebbe
essere Black Diamond ('96), col quale condivide una sofferta dimensione
cantautorale che si estrinseca in un pugno di ottime ballate. In questo
senso, citerei perlomeno la spettrale Afghan/Forklift, la dylaniana
Throw It Away, gli aromi di frontiera sprigionati da ogni singola
nota della splendida God Sleeps In A Caboose o il trash-country
di Your Rockin' Chair, specificando però che rispetto a quel titolo
di ormai otto anni fa Snakebite gioca su di una prospettiva ancor più
obliqua, originale e stralunata. Il senso del titolo completo sta proprio
in questo, nel partire da una serie di concetti, ragionamenti e figure
retoriche talmente consuete da risultare quasi ovvie - la strada, la fuga,
la provincia americana, la musica delle radici, la tradizione noir, il
romanticismo da cartolina etc. - per poi stravolgerle nel contesto di
un excursus musicale in cui si conosce il punto di partenza ma mai quello
d'arrivo. Ecco, quindi, che il taglio drammatico e cronachistico di Wake
Up Sally (The Cops Are Here) si risolve in un'ilare marcetta militaresca,
la take sull'amato Moose Allison di Monsters Of Id si trasforma
in un cupo esperimento ai confini con l'ambient, la velenosa Our Manhattan
Moment finisce con l'assomigliare a un Frank Sinatra imbevuto nell'acido
e Classic Hollywood Ending, avviluppata com'è in una spirale di
insopprimibile malinconia, assomiglia a tutto tranne che a quei posticci
"lieto fine" hollywoodiani cui troppo, pessimo cinema made in Usa ci ha
abituato. Meno eccentriche, ma certo non meno riuscite, sono l'oscura
Crow Hollow Blues, il traditional My Rose Marie (A Soldier's
Tale) o il divertito pop-rock di una Running With The Carnival
colma di gioia e melodia. E tuttavia, il capolavoro del disco lo si trova
nel bluesaccio a tutta slide di Talkin' Wall Of Voodoo Blues Pt.1,
commossa, buffa, tenera rievocazione dei sogni e degli scherzi del destino
toccati in sorte al primo gruppo di Stan. Il quale, sia detto per inciso,
non è e non potrà di sicuro più essere inventivo e influente come vent'anni
fa (a chi, in tutta onestà, potremmo ancora chiederlo), eppure ha ripreso
a scrivere pagine memorabili nel suo personalissimo libro dell'american-music.
Bentornato.
(Gianfranco Callieri)
www.stanridgway.com
www.redflyrecords.com
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