inserito 18/06/2010

Tom Petty & The Heartbreakers
Mojo
[
Warner   2010
]



Si potrebbe partire dal fondo, da chi non ha fatto sconti al nuovo Tom Petty, tornato ufficialmente in carreggiata con la sigla The Heartbreakers otto anni dopo l'altrettanto discusso The Last DJ. Non è un caso che Mojo abbia avuto critiche rivolte in due principali direzioni: da una parte il suo presunto (e pare eccessivo) sfoggio di virtuosismo, il suonare come un disco smaccatamente jammato, un andazzo da session dove al centro stazionano le splendide chitarre di Mike Campbell e il loro fraseggio bluesy, quasi fosse una sorta di album "per musicisti", con improvvisazioni e assoli a prendersi tutti gli spazi; dall'altra la reprimenda per l'assenza di canzoni killer, di pop song perfette nello stile che Tom Petty ha sempre rimarcato, quelle melodie ariose che devono per forza uscire dalla fabbrica degli Heartbreakers. Sono forse gli effetti di un decennio dove il gesto del rock'n'roll cresciuto nella mitologia del palco e sulla strada degli "easy riders" dei primi anni '70 non ha più molta presa. È insomma un disco per lo più immolato sull'altare del british blues (passando per il Sud di JJ Cale - nel caso sentitevi Candy - e dell'Allman Brothers Band) che viene preso come una anticaglia da vecchi hippie imbolsiti.

Mojo non è certo tra le meraviglie di Petty (e peraltro con la convincente rimpatriata dei Mudcrutch di mezzo, l'autore non si era esattamente esaurito), ma neppure una jam estenuante e senza idee. È piuttosto la radiografia di una band che ci ha preso gusto, magari facendosi sfuggire di mano la situazione: dopo l'atmosfera informale dei citati Mudcrutch, essenzialmente degli Heartbreakers rivisti e corretti, era naturale che Petty, Campbell, Benmont Tench e tutta la combriccola associata provassero la chiave per un ulteriore sfogo: lasciando aperte le soluzioni, tirando in lungo e in largo il loro rock'n'roll con una precisione inviadibile, ma soprattutto tornando ancora alle radici. Questa volta - e non dovrebbe essere una sopresa per chi ha consumato il recente The Live Anthology - c'è di mezzo il blues e le sue mille varianti elettriche, dalla Chicago di Muddy Waters (e in Takin' My Time l'omaggio è alla luce del sole) alla swingin' London degli Yardbirds, di John Mayall e dei Fletwood Mac (quelli di Peter Green, non si faccia confusione).

Jefferson Jericho Blues, Running Man's Bible e Let Yourself Go sono li a dimostrarlo, mentre U.S. 41 prende una deviazione verso l'highway di Bob Dylan e First Flash of Freedom ci aggiunge un venticello psichedelico e californiano, Grateful Dead permettendo. Ecco, la California (o la Florida, terra orginaria di Tom, fate voi): chi lo ha detto che Mojo non riesca ancora una volta a tirare fuori dal cilindro qualche ballata da grandi spazi. Ci sono infatti la dolcissima No Reason To Cry, una più flessuosa, notturna The Trip To Pirate's Cove, francamente tra le cose più belle scritte dal nostro in tempi recenti. Queste ultime non hanno forse la sembianza di "canzoni"? Certo, gli Heartbreakers di Mojo l'hanno tirata per le lunghe e da metà disco qualcosa si sfilaccia anche troppo (di Lover's touch, Something Good Coming e del reggea bislacco di Don’t Pull me Over avremmo volentieri fatto a meno), ma quando ti ritrovi per le mani le stilettate southern di I Should Have Known It (pare di sentire la bolgia dei primi Black Crowes) il vento in faccia di High in the Morning e quella crescente tensione soul fra organo e chitarre in Good Enough tutto si allinea magicamente (e si perdona anche più facilmente). Ancora sulla strada, acnora necessari, Tom Petty & The Heartbreakers mischiano cuore e accademia.
(Fabio Cerbone)

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