Si potrebbe partire dal fondo, da chi non ha fatto sconti al nuovo Tom
Petty, tornato ufficialmente in carreggiata con la sigla The Heartbreakers
otto anni dopo l'altrettanto discusso The Last DJ. Non è un caso che Mojo
abbia avuto critiche rivolte in due principali direzioni: da una parte il suo
presunto (e pare eccessivo) sfoggio di virtuosismo, il suonare come un disco smaccatamente
jammato, un andazzo da session dove al centro stazionano le splendide chitarre
di Mike Campbell e il loro fraseggio bluesy, quasi fosse una sorta di album "per
musicisti", con improvvisazioni e assoli a prendersi tutti gli spazi; dall'altra
la reprimenda per l'assenza di canzoni killer, di pop song perfette nello stile
che Tom Petty ha sempre rimarcato, quelle melodie ariose che devono per forza
uscire dalla fabbrica degli Heartbreakers. Sono forse gli effetti di un decennio
dove il gesto del rock'n'roll cresciuto nella mitologia del palco e sulla strada
degli "easy riders" dei primi anni '70 non ha più molta presa. È insomma un disco
per lo più immolato sull'altare del british blues (passando per il Sud di JJ Cale
- nel caso sentitevi Candy - e dell'Allman
Brothers Band) che viene preso come una anticaglia da vecchi hippie imbolsiti.
Mojo non è certo tra le meraviglie di Petty (e peraltro con la convincente
rimpatriata dei Mudcrutch
di mezzo, l'autore non si era esattamente esaurito), ma neppure una jam estenuante
e senza idee. È piuttosto la radiografia di una band che ci ha preso gusto, magari
facendosi sfuggire di mano la situazione: dopo l'atmosfera informale dei citati
Mudcrutch, essenzialmente degli Heartbreakers rivisti e corretti, era naturale
che Petty, Campbell, Benmont Tench e tutta la combriccola associata provassero
la chiave per un ulteriore sfogo: lasciando aperte le soluzioni, tirando in lungo
e in largo il loro rock'n'roll con una precisione inviadibile, ma soprattutto
tornando ancora alle radici. Questa volta - e non dovrebbe essere una sopresa
per chi ha consumato il recente The Live Anthology - c'è di mezzo il blues e le
sue mille varianti elettriche, dalla Chicago di Muddy Waters (e in Takin'
My Time l'omaggio è alla luce del sole) alla swingin' London degli
Yardbirds, di John Mayall e dei Fletwood Mac (quelli di Peter Green, non si faccia
confusione).
Jefferson Jericho Blues,
Running Man's Bible e Let
Yourself Go sono li a dimostrarlo, mentre U.S.
41 prende una deviazione verso l'highway di Bob Dylan e First
Flash of Freedom ci aggiunge un venticello psichedelico e californiano,
Grateful Dead permettendo. Ecco, la California (o la Florida, terra orginaria
di Tom, fate voi): chi lo ha detto che Mojo non riesca ancora una volta a tirare
fuori dal cilindro qualche ballata da grandi spazi. Ci sono infatti la dolcissima
No Reason To Cry, una più flessuosa, notturna
The Trip To Pirate's Cove, francamente tra
le cose più belle scritte dal nostro in tempi recenti. Queste ultime non hanno
forse la sembianza di "canzoni"? Certo, gli Heartbreakers di Mojo l'hanno tirata
per le lunghe e da metà disco qualcosa si sfilaccia anche troppo (di Lover's
touch, Something Good Coming e
del reggea bislacco di Don’t Pull me Over
avremmo volentieri fatto a meno), ma quando ti ritrovi per le mani le stilettate
southern di I Should Have Known It (pare di
sentire la bolgia dei primi Black Crowes) il vento in faccia di High
in the Morning e quella crescente tensione soul fra organo e chitarre
in Good Enough tutto si allinea magicamente
(e si perdona anche più facilmente). Ancora sulla strada, acnora necessari, Tom
Petty & The Heartbreakers mischiano cuore e accademia. (Fabio Cerbone)