Tutti ricorderanno l'interpretazione a Woodstock di "Joe Hil" da parte di
Joan Baez, che fu il trionfo di un certo cantautorato di protesta che prendeva
le mosse nei primi anni '60 nel Greenwich Village. E' proprio ascoltando questo
Joe Hill's Ashes (un vero hobo condannato a morte per essere stato
ritenuto colpevole di un omicidio mai commesso, solo per essere un attivista per
i diritti dei lavoratori) che si ha la sensazione di ritornare indietro nel tempo
a quei meravigliosi tempi quando la musica era uno strumento contro le ingiustizie,
la violenza, il razzismo che riportava in auge Woody Guthrie, Pete Seeger e tutti
i canti popolari americani con interpeti che hanno fatto la storia come Dave Van
Ronk, Buffy Sainte Marie, Phil Ochs, Tom Paxton, Dylan, Eric Andersen.. Al pari
di Jack Kerouac e Woody Guthrie, Otis Gibbs può essere considerato a tutti
gli effetti un vero Hobo, un outsider. Ha girato in lungo e in largo per tutti
gli States con pochi mezzi, ha cercato di sopravvivere come meglio poteva con
lavori saltuari di tutti i tipi (leggetevi il sito per credere), e ha suonato
in mille città diverse (108 concerti nel 2009) per manifestazioni pacifiste, in
bar scalcinati, teatri salotti etc.
E' già al quinto album dopo l'ottimo
Grandpa Walked
a Picketline dell'anno scorso e questa volta fa ancora meglio. Sin
dai primi ascolti si nota una migliore produzione (ad opera di Thomm Jutz);
la voce si è fatta più roca e sofferta ma allo stesso tempo più ricca e diretta
che negli album precedenti, la strumentazione più scarna mentre i testi rimangono
diretti e raccontano di di persone incontrate nei suoi lunghi viaggi: losers ed
emarginati che si vedono per strada ma a cui nessuno osa avvicinarsi. Otis porta
Woody nel cuore, anche se la principale influenza rimane Steve Earle (anche la
sua barba ricorda il vecchio Steve). Ad accompagnarlo una manciata di musicisti
della scena di Nashville oltre al già citato Jutz al basso e mandolino, Dean Richardson
al violino, Pat Mc Inerney alla batteria e l'inseparabile compagna di sempre Amy
Ashley ai cori.
Il terzetto iniziale è da brividi con una sequenza di
impressionante bellezza; la titletrack é una ballata vecchio stile con un violino
ad accompagnare la voce quasi sussurata di Otis; Where
the Only Graves Are Real (uno sfogo contro il music business) è puro
rock'n roll irriverente e stradaiolo; la sognante When
I was Young è avvolta dalla voce inconfondibile di Otis. Twelve
Men Dead in Sago é molto roots con Amy ad accompagnare il compagno
in una ballata spaccacuori. La bella Kansas City
alza il volume con una melodia e un riff trascinante e racconta delle difficoltà
a suonare in tanti posti diversi per pochi dollari (7 hours in car 45 singing
in a bar). Outadated, Frustrated and Blue
è sofferta e diretta come una ballad che sembra uscire dal Tom Waits più acustico
mentre The Town That killed Kennedy è una
canzone scritta "on the road", che racconta di tutte le brutte esperienze che
si hanno viaggiando sui Greyhound, cantata con la grazia di un vecchio bluesman.
Da questo punto l'album decolla ancora una volta, a partire dalla riuscita e frizzante
The Ballad of Johnny Crooked, dalla rurale
I Walked Out in the River molto country con
un bel ritornello che ti si appiccica in testa a Cross
Country, che riporta il sole sulle note di un mandolino e un violino
come fosse un bluegrass da far battere i piedi sotto il tavolo. My
new mind è scarna e si rifà tanto a Guthrie quanto allo Springsteen
di Nebraska. Tutti attendono il bis e Otis ce lo regala con la conclusiva e stupenda
Something More altro capolavoro che ricorda di come la vita sia dura
quando vengono a mancare gli amici più cari. Una lacrima scende sul viso di questo
cantautore, che ci lascia con una gran voglia di riascoltarlo. Un album di grande
impatto emotivo per un cantastorie originale che farà parlare di sé e che forse
renderà il nostro mondo un posto migliore e più giusto nel cui vivere. Quasi un
capolavoro. (Emilio Mera)