Alejandro
Escovedo
Street Songs of Love
[Concord/
Fantasy
2010]
"Devi avere fede / in quello che sta sopra di te / Talvolta devi perderla
/ Per trovarla di nuovo": e se lo dice il texano Alejandro Escovedo,
in una pestatissima Faith dove anche la voce
dell'ospite Bruce Springsteen torna a essere abrasiva e sconquassante come
se dovesse sbranarsi il microfono, possiamo star certi che non si tratta del solito
luogo comune. Perché Escovedo è uno che sul palco, oltre ad averci passato la
vita, ha pure vomitato sangue: successe durante un'esibizione del 2003, e la diagnosi
fu inappellabile. Epatite C. All'epoca si mobilitò mezza Austin, nonché l'intero
spettro della canzone d'autore americana, per mettere in piedi un tribute-album
(Por
Vida) che raccogliesse qualche fondo a sostegno delle costosissime
cure. Ma al di là dell'affetto degli amici, al di là della passione dei fans e
al di là dell'interessamento dei semplici conoscenti, Escovedo può ben dire di
esserne uscito sulle proprie gambe, andando quindi a ingrossare le fila di tutti
quelli cui il rock'n'roll ha salvato la vita in senso non soltanto metaforico.
Pensateci: il magazine No Depression, vera e propria bibbia dell rinascimento
rootsy dei primi '90, sul far del nuovo millennio l'aveva già definito "artist
of the decade", sicché il nostro avrebbe potuto campar di rendita tramite pensosi
medaglioni folk che avessero continuato a manifestarne il lato più agreste e legato
alla tradizione. Nessuno si sarebbe risentito, e oggi avremmo probabilmente accolto
i suoi nuovi lavori con l'indulgenza che si riserva a quei tromboni incanutiti
che hanno svolto un ruolo insostituibile nel codificare certi tipi di linguaggio
e oggi appaiono soffocati in un eterno ritorno al passato.
E invece
Escovedo, dopo la malattia, non ha fatto altro se non buttare a mare tutti quegli
elementi - l'approccio "cameristico" e orchestrale al roots-rock, gli addentellati
con le radici ispaniche, le traiettorie di avvicinamento al country - che gli
avevano garantito una certa notorietà, seppur di nicchia, per riprendere a occuparsi
di quel rock'n'roll urbano, stradaiolo, punkeggiante, sporco di glam e infarcito
di riff assassini che aveva contraddistinto (in forma infinitamente meno compiuta)
i suoi esordi alla guida dei Nuns. Ha reclutato un produttore quale Tony Visconti
(David Bowie, Thin Lizzy, T. Rex etc.), s'è messo a scrivere canzoni con l'ex
Green On Red Chuck Prophet (il miglior chitarrista della sua generazione
e un altro che quando si tratta di comporre selvaggi baccanali stonesiani ha pochi
rivali), ha messo in piedi i suoi Sensitive Boys (David Pulkingham, Hector Munoz
e Bobby Daniels) e ha deciso di comportarsi come se New York Dolls e Mott The
Hoople fossero gli unici gruppi da portarsi nella tomba. Real
Animal, primo album di questo nuovo corso dopo l'interlocutorio The
Boxing Mirror ('06), contrassegnava un'esplosione di punk-rock "d'autore" col
santino di Stooges e Springsteen nella tasca dei jeans, ma assomigliava pur sempre
al prodotto di un songwriter in cerca di nuove direzioni. Street Songs Of
Love, ancora una volta con Visconti, Prophet e i Sensitive Boys a bordo,
suona più compatto e devastante, ancor più "old-school": nelle parole del titolare
stesso, il "disco di una band" e non l'estensione di uno screening solista sui
propri amori di gioventù. Che pure compaiono; anzi, uno di essi, quell'immarcescibile
Ian Hunter che a 71 anni è molto più in forma di quanto io e voi possiamo
mai esserlo stati a 15, è addirittura corresponsabile dell'episodio migliore del
disco, una Down In The Bowery che fin dal
titolo ricorda le rock-ballads arruffate e sanguinanti di Johnny Thunders, Nikki
Sudden o David Johansen e, nel raccontare delle preoccupazioni di un padre circa
il percorso interiore di un figlio confuso, accende i riflettori su quel rock
newyorchese pieno di cuore e cicatrici che più o meno tutti, negli ultimi tempi,
sembrano aver dimenticato.
Solo il più memorabile, ad ogni modo, tra
i tanti brani travolgenti di un disco che si inchioda in testa dalla prima all'ultima
nota, dal rifferama di rock'n'roll anni '50 in chiave pop-punk dell'iniziale Anchor
("If your love was a ship / I'd pull your anchor and christen it / I'm in love
with love / And it broke me in two": Frankie Ford incontra le Runaways?) alla
violentissima tracimazione funk della title-track, da una Fall
Apart With You provvista della malinconica dolcezza di un Johnny Rivers
corretto dal taglio nostalgico di Sylvain Sylvain ("Mi ha detto che il suo primo
amore è stato anche l'ultimo / ed ecco perché piange, quando ascolta Johnny Cash")
al fulminante anthem rockinrollistico di una Undesired
dedicata a tutti i magnifici rottami del mondo (così li avrebbe chiamati Willie
Nile, che della canzone è il referente stilistico più attendibile), dallo Sprigsteen
scartavetrato di Faith fino alla panacea strumentale di una Fort
Worth Blue che chiude evocando paesaggi western e orizzonti di frontiera.
Street Songs Of Love è un disco autobiografico. Racconta in modo
assolutamente fedele, Escovedo dixit, delle vicissitudini sentimentali attraversate
dal suo autore negli ultimi due anni. Per quanto riguarda i rapporti con l'altro
sesso, non so dirvi nulla. Ma per quanto riguarda la musica, ovvero una "vicissitudine
sentimentale" di pari importanza, be', sappiate che il disco racchiude ciò che
gli U2, dieci anni fa, soprannominarono "all that you can't leave behind", tutto
quel che non puoi lasciarsi alle spalle.
Con Street Songs Of Love, Alejandro
Escovedo afferma chiaro e forte che dal rock di strada, dai fendenti di una sei
corde mulinata alla stregua di una spada pronta per mietere vittime, dal romanticismo
sconfitto di quei pazzoidi che si ostinano a cercare la loro luna nella caligine
di un vicolo non sa o non vuole prescindere. Figuratevi noi. (Gianfranco
Callieri)