L'aria strascicata è quella di un ragazzo cresciuto a Forth Worth, Texas,
ma il folk un po' smarrito, autunnale ricorda anche la città d'adozione, Boston.
Non è lontana dalla verità, per una volta tanto, la descrizione che ci arriva
di Dan Baker, songwriter con una vena acustica essenziale che in qualche
modo sintetizza il meglio delle diverse tradizioni, fra la polvere di un catautorato
country che ha scritto le sue migliori pagine ai bordi delle strade di Nashville,
in mezzo a quei texani che hanno preso in mano la città negli anni '70, e le suggestioni
più naif di un vagabondo della East Coast. Di fatto Sad Song Jukie
è una preziosa conferma, che colloca il nome di Baker tra le sorprese più interessanti
in fatto di cantastorie e ballate disadorne di questo 2010. Per il nuovo lavoro,
che arriva a due anni di distanza dal già positivo esordio Outskirts
of Town, Baker ci è finito davvero a Nashville, mettendo insieme una
squadra di musicisti dal curriculum "pericoloso": ci sono il mandolino e il fiddle
di Joe Spivey, l'accordion di Jeff Taylor e la steel guitar di Steve Hinson, personaggi
che a molti diranno poco e che pure vantano una lista di collaborazioni da vera
mecca della country music (da Kristofferson a Merle Haggard a George Jones fino
al recente Elvis Costello, toccando spesso e voletieri il mainstream più luccicante
della città).
La loro presenza fra le note di Sad Song Junkie è pacata
e sempre al servizio di una canzone che fa del risparmio la sua ragione d'essere:
novello John Prine, ma con una vena di ironia che si tinge spesso di una innata
malinconia, Dan Baker si mette in mostra con una manciata di brani che fanno della
essenzialità folk il loro tratto distintivo. E i risultati, per chi apprezza le
ombre e i silenzi più delle uscite plateali, non si fanno attendere: basterebbe
l'avvolgente tristezza di una 365 Days, dall'aria
un po' mittleuropea alla Tom waits, per sancire la crescita dell'autore. Gli occorrono
poche pennellate, due note di acustica al punto giusto e la canzone prende corpo:
Sad Song Junkie e A
Little Something sono la sua visione di ballata country, con quella
steel che ricama in lontananza; Martini e
Look At Billy Run tornano verso i vicoli,
gli angoli bui e la dark side della vita, mentre il contrasto fra parole e musica
in Little O Death è degno esattamente di John
prine (e magari con un pensero a Guy Clark).
Questa alternanza di dolcezza
e spietato, scuro realismo è la chiave per leggere in controluce un disco di non
facile approccio: Baker non fa nulla per imbellettare le sue composizioni, ma
non è neppure un improvvisato menestrello. In realtà ogni episodio basta a se
stesso, sorretto spesso e volentieri dalla sola accoppiata di accordion e steel,
strumenti principe nel disegnare la melodia e capaci di "arricchire" la scarna
poesia in Days First Dream e Corduroy,
quest'ultima altra splendida ballata dai colori bohemienne che sarebbe piaciuta
al Tom Waits più nostalgico. L'asso però è calato sul tavolo in chiusura di partita:
si chiama Breakdown e inizialmente dondola
come molte canzoni di Baker sulle carezze di una ballad country svogliata, salvo
riempirsi nel finale con un variopinto tappeto di fiati. (Fabio Cerbone)