inserito 15/06/2009

Dan Baker
Outskirts of Town
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Dan Baker  2009
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Sarebbe troppo facile, e allo stesso tempo inutile, attingere al titolo per sciorinare la solita valanga di paragoni e affini, in effetti quasi inevitabili: vita dei sobborghi che richiama lo Springsteen in tuta blu dei settanta, un anelito folk che guarda dritto negli occhi un tale che bazzicava il Greenwich Village alla ricerca di risposte nel vento… C'è un ma, un però, o quello che preferite: Dan Baker non è l'ennesimo nuovo Dylan che va ad aggiungersi a una lista ormai indefinita di discepoli del maestro. Certo, si parla di un cantautore classico che gravita spesso intorno alla tradizione folk, ma tra le righe si intercetta uno stile particolare che sposta il baricentro delle influenze un po' più a ovest, laddove in quel di Chicago un tizio di nome John Prine muoveva i primi passi di un percorso artistico non certo illuminato dalle stesse luci della ribalta di cotanto collega. Si tratta di un esordio, e questo è un dato da non sottovalutare perché ci troviamo di fronte a un artista dotato, sopra la media, che mescola le suggestioni del natio Texas (è nato a Fort Worth) con i ritratti della small town life dove è cresciuto, quella del Massachusetts.

Di Prine possiede quella capacità di songwriting che taglia l'ironia con i denti, le liriche sono schiette e pungenti, smaltite da una sbornia di quotidiano aniteroismo. C'è Todd Snider a fare da filtro, in effetti alcune inflessioni della voce strascicata ricordano il suo periodo post-esplosione, quello Oh Boy, non a caso l'etichetta che lo ha messo al riparo forgiandone in un certo senso futuro ed eredità artistica. Su quest'asse si muovono le dieci canzoni dell'album, costruite su un impianto sonoro scarno e semiacustico, con tessiture di organo, piano e talvolta violino a incenerire la banalità della vita, quella che sorride quando accetta il compromesso con la tentazione, sempre attenta però all'altrui esistenza. L'unico appunto, se proprio vogliamo cercare il pelo nell'uovo, riguarda una certa staticità dei brani, che si muovono sulla stessa corda di ispirazione senza però perdere l'equilibrio, anzi.

Così lo scandaglio sociale si immerge nella solitudine di periferia (la title track rivestita di folk) e dà il meglio di sé in Bad Man, perla autobiografica a passo di errore cadenzata dall'inevitabile fascino del peccato, quello centellinato dal piano di God Might Be Crazy, che ironizza con cautela su una questione che fa sorridere sin dai primi versi (He invented the pleasures of skin, but then he called those pleasures a sin). L'organo di Dreams intercetta il fulcro di un talento, Flamingo & Palm Tree e Surrounded - quest'ultima lambita da un delizioso violino - giocano una difficile partita con i problemi di cuore, Untraveled Road è l'attualizzazione di Sam Stone a distanza di quarant'anni per dipingere sulla tela degli orrori la triste realtà della guerra, come a dire che dal Vietnam all'Iraq l'esperienza non ha portato consiglio. C'è spazio per il country di Live Like A Dog, mentre la bellissima e conclusiva Spinning 'Round esprime a chiare lettere una predisposizione innata, capace di uscire dalla dimensione provinciale per bussare alle porte del paradiso, che in senso musicale sembra non rispondere più alla chiamata.
(David Nieri)

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