Alberta
Cross
Broken Side Of Time
[Ark
Recordings / PIAS 2009]
Ci sono cascato spesso, ci sono cascato anche stavolta e non c'è dubbio,
immagino, che ci cascherò ancora. Ma davvero avrei scommesso le mutande sulle
canzoni di The Thief & The
Heartbreaker, ep d'esordio degli Alberta Cross, un quartetto
di anglo-svedesi trapiantati nell'East End londinese che due anni fa mi sembravano
bruciare e sferragliare alla stregua di un incrocio tra i più furiosi White Stripes,
le allucinazioni elettroacustiche dei Led Zeppelin di III ('70) e la concretezza
sudista dei Black Crowes. I dieci brani di Broken Side Of Time,
esordio del gruppo sulla lunga distanza, mi costringono a rimangiare quanto detto
e a constatare una volta di più come l'ansia di dire e di dimostrare siano elementi
che vanno dosati né più né meno di tutti gli altri, giacché da soli non bastano
certo a salvare un disco dalla debolezza di scrittura imbarazzante. E non è nemmeno
la qualità del songwriting, il problema maggiore di Broken Side Of Time: il cantante
e compositore Peter Erickson Stakee ha ascoltato abbastanza dischi e studiato
abbastanza a lungo le pose canore di Perry Farrell o Axl Rose da riuscire a divertire
con quella che è, a tutti gli effetti, una riuscita imitazione dell'ugola dei
glam-rockers di venticinque anni fa.
I brani, presi singolarmente, non
denotano particolari sforzi di fantasia, ma le bastonate hard della psicotica
title-track, il bluesaccio manualistico (non "da manuale"), opportunamente corretto
da una valanga di distorsioni, della discreta Leave Us
And Forgive Us, i riff contorti à la Neil Young di Song
Three Blues, il country-rock malinconico di una Old
Man Chicago che non sarebbe dispiaciuta al Ryan Adams di Gold e, soprattutto,
il fragili fatalismo del brano migliore della raccolta, quella conclusiva
Ghost Of City Life che in cinque minuti di ballata folkie annerita
e metropolitana, tra pianoforte e pedal-steel, fa rimpiangere tutto quello che
non s'è sentito fino ad allora, fanno il loro sporco mestiere, ovverosia si lasciano
ascoltare e promettono brividi d'eccitazione che spariscono appena ci si accorge,
due secondi dopo averla sentita, di non ricordare nemmeno il titolo della canzone.
Quel che mi lascia davvero di stucco è la produzione inascoltabile di Mike
McCarthy, in teoria un veterano dello studio (ha supervisionato, tra gli altri,
i dischi di Spoon, Patty Griffin, And You Will Know Us By The Trail Of Dead, Heartless
Bastards) che però non pare in grado di fare nient'altro se non sparare la voce
di Stakee su frequenze innaturalmente alte e seppellire ogni straccio di arrangiamento
in una spessa coltre di chitarre, peraltro mai davvero "cattive" o lancinanti,
che in più di un'occasione fanno il verso (emblematica, in tal senso, la snervante
Atx) al wall of sound, tanto epico nelle intenzioni
quanto fastidiosamente monolitico e innocuo nei risultati, degli ultimi, bolliti
Oasis.
Diciamo che, data l'efficacia del citato The Thief & The Heartbreaker,
non mi aspettavo certo di imbattermi in un album che assomiglia a una raccolta
di outtakes dei Keane ubriachi di testosterone in seguito alla scoperta del mondo
della sei corde, ma diciamo anche che se avessi ancora quindici anni accetterei
senza troppe storie il sound grasso, epidermico e superficiale di Broke Side Of
Time mandando affanculo le considerazioni da professore e divertendomi un casino.
E sapete una cosa? E' per quei quindici anni e per quel divertimento futile, in
fondo, che provo gli unici rimpianti. (Gianfranco Callieri)