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Son
Volt
American Central Dust
[Rounder
2009]
Simbolicamente (e non solo) American Central Dust è un ritorno
a casa: lo hanno scritto già in tanti e non avrebbe senso negarlo. Quella
polvere nel titolo (e magari anche lo spirito di Woody Guthrie) riporta
direttamente alla "depressione" cantata a Belleville vent'anni fa con
gli Uncle Tupelo; il suono scartabella di nuovo fra la eco di un country
rurale, rispolverando con decisione violini e pedal steel; c'è persino
un'etichetta, la Rounder, che è simbolo naturale di una roots music di
qualità e fuori tempo. I Son Volt sono tornati, Jay Farrar mormora
malinconicamente come non succedeva da tempo, ma attenti a non chiudere
American Central Dust dentro una bacheca museale, perché in verità questo
disco sfiora si la nostalgia, ma si tiene strette anche le più recenti
conquiste, specialmente quelle di The
Search.
È un'opera a metà del guado dunque, forse attendista sul futuro o non
esattamente visionaria come poteva essere l'appena citato predecessore,
e tuttavia riprendendo il raccoglimento acustico di Trace e Straightaways,
evita di fare del semplice amarcord, suonando piuttosto quale riassunto
di una carriera, immagine nitida della scrittura di un autore, Jay Farrar
per l'appunto, mai tanto incompreso, bistrattato, costantemente costretto
a convivere con il passato dei Tupelo e il presente di una improponibile
battaglia a colpi di songwriting con Jeff Tweedy. Lui resta semplicemente
la più grande, profonda, ermetica voce della provincia rock americana,
con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, ma anche con tutta la
forza di un rock'n'roll che qui si rende più intimo del solito.
John Agnello asseconda l'introspezione dei Son Volt e quell'incessante
rimuginare fra scampoli di protesta, una certa enigmaticità delle liriche
e qualche lacrima degna della migliore tradizione dell'american music.
Non è peraltro scontato che la band, tra cui spiccano Chris Masterson
e Mark Spencer, sia così accomodante con il padrone di casa: per
una Roll On che ondeggia una dolcissima
melodia agreste ed una Dust of Daylight
che sbuca dalla macchina del tempo a tempo di tenero walzer alt-country,
vi sono insinuanti ritmiche che costeggiano un suono funky (Down
to the Wire la più attraente), un rock scuro che tende pericolosamente
all'involuzione quando non ad un eccessivo brontolio (le ombre del declino
economico in When the Wheels Don't Move)
e ballate che si trascinano seguendo la voce caratteristica di Farrar
(la pianistica Cocaine and Ashes che
dovrebbe omaggiare Keith Richards, la sfuggente
Exiles).
In questa doppia anima è evidente come American Central Dust non mantenga
tutte le promesse di un "coming back", ma non avendo mai sposato da queste
parti la tesi di una band involuta o peggio senza vie di uscita (The Search
aveva significato molto il tal senso), possiamo allora accogliere questo
album come un passaggio. A tratti entusiasmante (la lipidezza di No
Turning Back e Jukebox of Steel,
quintessenza di cosa si intenda per alternative country), altre epico
e letterario (la saga storica narrata in una solenne Sultana)
altre ancora più ambiguo e austero, il nuovo (ri)corso dei Son Volt racconta
semplicemente di un gruppo, nonostante tutto, ancora vivo.
(Fabio Cerbone)
www.sonvolt.net
www.myspace.com/sonvolt
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