inserito
il 02/04/2007
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Son
Volt Per capire quale sia il
senso della "ricerca" che intitola The Search, secondo album
per la nuova line-up dei Son Volt di Jay Farrar dopo il discontinuo
Okemah
And The Melody Of Riot, bisogna fare ricorso all'installazione
dell'artista coreano (ma residente a New York) Michael Joo le cui foto
adornano copertina e booklet del disco. Le sculture, molto simili, sono
in realtà due, entrambe - "Space-Baby" e "Gwanju" - fanno parte della
serie "Bodhi Obfuscatus", che raffigura il Bodhisattva a contatto con
materiali, intuizioni e suggestioni della modernità e di culture aliene
a quella orientale. Il sincretismo culturale, del resto, è un po' l'asse
portante su cui si basa il lavoro di Joo (che espose anche alla Biennale
di Venezia nel 2001), e l'obiettivo degli Obfuscatus è ancora una volta
quello di riflettere sulla contrapposizione tra spiritualità e istinto
secolare, tra Asia e occidente, tra materiali poveri e ritrovati hi-tech.
Di contrasti e antitesi, fino ad oggi, si è nutrita anche la carriera
di Jay Farrar. Prima, in coabitazione con Jeff Tweedy, ha fatto
saltare in aria le consuetudini della musica tradizionale americana grazie
alle cariche esplosive dei mai troppo lodati Uncle Tupelo; poi, con la
prima formazione dei Son Volt (vissuta per circa quattro anni durante
la seconda metà degli anni '90), è diventato il portabandiera del lato
più intransigente e canonico del neonato alt.country; subito dopo, attraverso
una serie infinita di ep e progetti solisti tanto coraggiosi quanto schizofrenici
(tra i quali continuo a prediligere il visionario Sebastopol
e il sofferto live Stone,
Steel & Bright Lights, con i Canyon come backing-band), ha
cercato in pratica di auto-superarsi a sinistra; infine, con le citazioni
da Woody Guthrie di cui era disseminato il citato Okemah e con le atmosfere
spartane di Death
Songs For The Living, accreditato al moniker Gob Iron (in comproprietà
con Anders Parker), sembrava aver recuperato una mai del tutto sopita
sollecitudine roots, stavolta estrinsecata tornando a battere i classici
sentieri del r'n'r e del folk. Perché, quindi, non provare una volta tanto
a far confluire qualche elemento di ognuno dei suddetti percorsi in un
unico contenitore, capace magari di fotografare le varie personalità della
scrittura di Farrar con pienezza sinora soltanto inseguita? Questo deve
essersi detto l'autore e questo dev'essere stato, a giudicare dalla varietà
di stili sviscerati in The Search, lo scopo che ne ha mosso
la personale ricerca. Con esiti felicissimi, peraltro, dacché The Search
mi sembra così riuscito da competere alla pari con uno Straightaways ('97)
o uno Wide Swing Tremolo ('98), spesso superandoli in originalità e profondità.
In questo disco c'è di tutto, e tutto affrontato con vena mai così felice.
Accanto al songwriting di Farrar e ai tipici cambi di accordatura della
sua chitarra à la Neil Young (cuore e anima di un capolavoro di notturna
elegia quale Circadian Rhytm), un ruolo essenziale viene rivestito
dalle tastiere di Derry DeBorja, che svisano un po' dappertutto
e assicurano tocchi fugaci di psichedelia (ascoltate Underground Dream
o Adrenaline And Heresy) come il morbido tappeto melodico sotto
ai fiati vigorosi e inattesi di The Picture. In mezzo a liriche
che non perdono occasione per attaccare le multinazionali o stigmatizzare
l'alienazione della middle-class americana, suonano irripetibili il country-rock
settantesco della sublime Methamphetamine (con la pedal-steel di
Eric Heywood) e gli scossoni di quei brani - Beacon Soul, Satellite,
la title-track - dove i tamburi di Dave Bryson e gli effetti della
sei corde di Brad Rice innalzano a livelli superiori il coefficiente
rock'n'roll. Non abbiano paura i fans del "vecchio" Jay Farrar. E' sempre
qui tra noi, intento a biascicare assieme a Shannon McNally la superba
malinconia roots di Highways And Cigarettes o a metter mano alle
altrettanto trasognate pennate acustiche della conclusiva Phosphate
Skin. Che i numi, o chi per loro, ce lo conservino sempre così ispirato
e sicuro di sé. |