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Joe
Henry
Blood from Stars
[Anti
2009]
Fra gli opposti capi di Prelude: Light No Lamp
When The Sun Comes Down (un semplice, breve abbozzo pianistico
ad opera di Jason Moran) e Coda: Light No Lamp When The Sun Comes Down
(sviluppo vero e proprio della canzone) è custodito il "nuovo corso" di
Joe Henry, in verità un graduale ritorno all'essenza del suo songwriting,
già messa in atto con il precedente e acclamato Civilians.
Là dove il fulcro ruotava intorno ad una massiccia ripresa di brillanti
sonorità folk rock, ad un cantautorato acustico di classe che facesse
comunque tesoro delle precedenti conquiste, oggi si rivolge invece ad
una essenzialità blues & jazzy che trasuda dalle strutture stesse dei
brani, da atmosfere serpeggianti che mettono insieme i misteri della New
Orleans di Dr. John, il sabato notte e la vita bohemienne di Tom Waits,
i chiaroscuri della Los Angeles narrata di Raymond Chandler. Si tratta
comunque di una ulteriore scarnificazione del linguaggio che tanto aveva
contribuito ad arricchire e allargare in passato, con opere quali Scar
e Tiny Voices: la poetica di Joe Henry si trova ancora tutta li, scodinzolando
attorno allo stesso romanticismo da late night hour, fra liriche
dal forte sapore letterario, anche se alcune recenti produzioni e la stretta
frequentazione con autori dall'ispirazione tradizionale (da Rodney Crowell
a Mary Gauthier a Loudon Wainwright) pare lo abbiano convinto a chiudersi
a riccio.
Si era già fatto notare come alcune soluzioni sonore fossero arrivate
probabilmente ad un punto di non ritorno, l'idea di Henry allora deve
essere stata quella di azzerare ogni velleità, convinto di possedere canzoni
in grado di sorreggerlo. Blood from Stars è in tal senso
un banco di prova importante, che sembra lasciarlo in parte a bocca asciutta,
ancora capace di svelarsi quale grande estesta, raffinato cesellatore
di suoni e umori, ma un po' a corto di sostanza. Concepito negli studi
casalinghi di South Pasadena con i fidati Jay Bellerose, David Piltch
e Patrick Warren, ampliato ai contributi di Marc Ribot (sorprendente
nella sua presenza alla tromba, inconfondibile peraltro alla chitarra)
e soprattutto del figlio Levon Henry (sax sinuoso - sentitelo in
Stars - e assai promettente per un
ragazzo di soi diciasette anni), il disco si espone in più di un'occasione
alla pura accademia, nonostante la forma blues & gospel di The
Man I Keep Hid, Bellwether,
della scura All Blues Hail Mary o
ancora di Death To The Storm costituisca
un tributo onorevole al genere.
Henry inoltre ha imparato di episodio in episodio ad accarezzare con la
sua voce, sempre più quieta e accurata: non stupisce dunque vederlo giostrare
con padronanza le sfumature waitsiane (riferimento a volte assai ingombrante)
di This Is My Favorite Cage e Progress
of Love (Dark Ground), oppure ritagliarsi un ruolo nelle trame
ritmiche di Channel e Suit
On A Frame, tra i momenti più originali e meno dipendenti dallo
schema blues. L'espressività del canto (e la bellezza indiscutibile dei
suoni) non basta però a mascherare un evidente impasse compositivo, o
quanto meno l'impressione che Joe Henry per la prima volta non abbia voluto
prendersi qualche doveroso rischio.
(Fabio Cerbone)
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