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The
Drones
Havilah
[Atp/ Good Fellas 2009]
Con una predilezione per i luoghi oscuri del rock'n'roll, ma soprattutto
sospinti da un legame fortissimo con la natura e ciò che in America chiamerebbero
wilderness, il quartetto australiano The Drones continua
a concepire i propri dischi dentro spazi e territori dimenticati. Prima
è stata la volta di un mulino abbandonato (il precedente Gala
Mill del 2006), oggi tocca ad una casupola di argilla dalle
parti di Mt Buffalo, nel più totale isolamento dello stato di Victoria.
Quasi una necessità per Gareth Liddiard nel dare forma alle sue
livide ballate elettriche, che montano con una crescente epicità e allo
stesso tempo graffiano la terra con le unghie, costruendo un suono bluesy
urticante, pieno di sporcizia rock che deriva direttamente dagli Stones
più "malati" dei settanta e dai loro discepoli più sordidi. Innegabile
infatti che la passione bruciante, persino i fastidiosi stridori di Havilah,
quarto lavoro della band e primo a sancire l'entrata del chitarrista Dan
Luscombe, siano figli dei Birthday Party, dei Beasts of Bourbon, degli
Scientists, di una lunga tradizione insomma che ha fatto dell'australia
una sorta di avamposto per la destrutturazione delle radici rock blues,
rivoltandole seccondo una sensibilità punk e arrembante.
Havilah in tal senso non si discosta certamente da quanto mostrato nel
recente passato, seppure suoni più vigoroso, alticcio e meno onirico del
suo predecessore, l'apprezzato ma disturbante Gala Mill. Questa volta
i Drones e il produttore Burke Reid sembrano essersi abbandonati ad un
rock'n'roll più nervoso e variegato, per quanto possa risultare varia
la formula granitica della band. Nondimeno gli scatti di Nail
It Down e la furia incotrollabile di The
Monotaur aprono il disco con una "arroganza" ed una
sicurezza innegabili: la seconda in particolar modo si svela quali tour
de force per l'ansia vocale, ruvida e sgraziata di Liddiard, mefistofelico
come mai nel suo berciare alla luna. Il misto di malinconia e violenza
della sua musica, la poesia un po' aguzza dei suoi testi non si nega tuttavia
a quelle lunghe cavalcate che sono il marchio di fabbrica dei Drones:
I Am the Supercargo è la quintessenza
di questa filosofia, che pare liberare il corpo e l'anima di una musica
vissuta come catarsi, esperienza sospesa fra Crazy Horse, psichedelia
e noise che forse va sperimentata dal vivo, una sensazione ribadita dagli
otto minuto e mezzo di Luck in Odd Numbers,
attesa paziente verso l'esplosione finale.
The Drones sono però oggi disposti a scorinare ballate più rootsy, con
una matrice folk e country blues che si evidenzia nella cantilena di The
Drifting Housewive, nell'eterea e rallentata Penumbra,
ma soprattutto nel finale di You're Acting Like
It's the End of The World, un ebbro abbandono fra le strade
polverose della loro terra australiana. Nel bilanciare queste anime hanno
pubblicato probabilmente il loro disco più maturo, seppure non risulti
il più istintivo.
(Fabio Cerbone)
www.thedrones.com.au
www.myspace.com/thedronesthedrones
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