Brandi
Carlile
Give Up The Ghost
[Columbia/Sony
2009]
La questione non è tanto chiedersi se Brandi Carlile possa essere
o no degna dell'Olimpo del cantautorato femminile americano, quanto arrendersi
all'evidenza che nel rock certe alchimie perfette a volte capitano anche
un po' per caso. E due anni fa capitò che una delle tante ragazzette nate
artisticamente nell'era post-Lucinda Williams, dotata di bella voce e
già forte di un discreto disco d'esordio nel curriculum, si ritrovasse
nello studio giusto (pagato con i pochi soldi che una major come la Columbia
dedica ancora al genere), con il produttore giusto (un T-Bone Burnett
particolarmente furbo nel rendere pieno d'anima un suono molto mainstream),
che diede il suono giusto alle canzoni giuste. Ma la storia, si sa, si
ripete all'infinito, e se il suo The
Story resta uno dei più azzeccati dischi femminili del decennio,
esattamente come lo fu Trampoline per Tift Merritt, questo Give
Up The Ghost ne sancisce l'inevitabile ridimensionamento artistico,
esattamente come è successo alla bionda collega con il successivo Another
Country.
Non parlate di delusione però, che Brandi Carlile non avesse la statura
da grande autrice traspariva anche dalle pagine di The Story, semplicemente
in questo caso l'intesa con il nuovo produttore Rick Rubin (basta
il nome per capire che razza di investimenti si stanno facendo su questa
ragazza) non ha creato gli stessi fuochi d'artificio del menage con Burnett.
Di chi è la colpa? Parzialmente della stessa Brandi, che per la grande
occasione si presenta con un carnet povero di dieci canzoni, con parecchi
riempitivi senza grande futuro (la sequenza finale I
Will, If There Was No You
e Touching The Ground vola davvero
basso). Colpa di Rubin anche, immenso artigiano del suono quando la musica
si fa estrema (o tutta acustica o ad alto voltaggio hard rock), ma troppo
indeciso sulla strada da intraprendere quando deve tenere i toni medi
e dimessi richiesti da queste canzonette intime e leggere.
Colpa della Columbia anche, e di quella stramaledetta necessità delle
grandi produzioni major di avere ospiti di riguardo, abitudine che fa
si che nei credits scorra il nome di Chad Smith dei Red Hot Chili
Peppers senza trovarne riscontro ritmico nella musica, o venga mal sfruttata
una delle sortite roots di Sir Elton John, che scomoda persino
il suo arrangiatore d'oro Paul Buckmaster per risolvere cotanta presenza
in Caroline, divertente quanto innocuo
episodio che fa rimpiangere davvero le scintille prodotte da Elton con
Cindy Bullens (ricordate lo splendido Dream #29?). Le note positive non
mancano fortunatamente, e sono tutte concentrate nella partenza di Looking
Up (che ha lo stesso suono di The Story), nelle poche notevoli
prove d'autore (Dying Day e That
Year) e in una Dreams che
finalmente tira fuori unghie e rabbia. Troppo poco per la gloria, abbastanza
per continuare a nutrire interesse e stima per lei, con il forte sospetto
che per il prossimo album dovrà cavarsela da sola senza tanti aiuti così
illustri. (Nicola Gervasini)