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il 01/05/2007 |
Brandi
Carlile "The
singer not the song": potremmo chiudere la pratica Brandi Carlile con questa
iperbole, giustificando il fascino di una voce davvero fuori del comune, ammaliante,
capace di vertigini e fragilità, di sussurri delicati e diluvi di inaudita forza.
Non si esaurisce tuttavia nell'istinto di una facile definizione la seduzione
del secondo lavoro di questa giovane autrice di Ravensdale, comunità di quattro
anime sperdute a poche miglia da Seattle. Nella grande città ci è arrivata giovanissima,
in cerca di fortuna nei club cittadini, una chitarra in spalla come si conviene
ad ogni folksinger e in tasca qualche canzone di cui non era ancora convinta del
tutto. È servita la conoscenza dei fratelli Phil e Tim Hanseroth
(rispettivamente basso e chitarre) e della loro rock'n'roll band (Fighting Machinists)
per dare forma a sogni e speranze, oltre che ad un songwriting in crescita esponenziale.
Se ne sono accorti alla Columbia, dopo che la Carlile aveva provveduto alla pubblicazione
di diverse auto-produzioni, nella più totale indipendenza, dividendo il palco,
al tempo stesso con una dose di umiltà e ambizione, fianco a fianco con qualche
bel nome del circo pop. È scivolato via senza troppi trionfalismi il suo esordio
del 2005, perso purtroppo nel grande mare delle proposte major: quanto possa risultare
utile il coinvolgimento diretto di T-Bone Burnett nella produzione di The
Story, per risollevare le quotazioni di Brandi Carlile, per non lasciarla
spegnersi nel limbo delle promesse, non possiamo ancora saperlo. Fatto sta che
il marchio di quest'ultimo non abbandona a se stesse queste canzoni, mettendo
come sempre in risalto ambientazioni, atmosfere, percorsi elettro-acustici, strumenti
al servizio della protagonista. Burnett asseconda e dimostra infine di comprendere
al volo il carattere volubile della Carlile, che nasce folksinger eppure molla
i freni per abbandonarsi spesso a fragorosi scrosci di elettricità (una Losing
Heart che piacerebbe tanto all'ultima Lucinda Williams, il finale in ascesa
di Again Today), ammiccando di tanto in tanto ad un muscoloso e travolgente
suono pop rock, moderna e ciononostante con un occhio di riguardo alla classicità.
Irresistibile fin dall'inizio, da quella avvolgente melodia che rende Late
Morning Lullaby un singolo da capogiro, subito dopo disposta ad aprirsi verso
l'epica rock della stessa The Story e di My Song, dimostrando infine
di avere una propensione mai nascosta verso docili nenie pop (Turpentine,
Wasted). Le presenze di Amy Ray e Emily Saliers (Indigo Girls)
e i loro camei vocali sono soltanto un'investitura per il futuro, una pacca sulla
spalla per una ragazza che ha carattere e idee abbastanza solide per farsi largo
con le sue canzoni. Queste ultime sono capaci di carezze acustiche avvolgenti
- la deliziosa Josephine, il fruscio cullante di una Shadow on the Wall
dall'animo soul, il finger picking dai sapori roots di Have You Ever
e il dolce dondolare di Cannonball - folk luminosi arricchiti da un suono
mai fuori posto, asservito all'interprete e impreziosito da una notevole abbondanza
corale. Le confessioni di Brandi Carlile, quelle liriche sospese fra incertezze
e dubbi, sono forse il terreno sul quale deve ancora trovare una propria dimensione,
ma il talento c'è tutto e il linguaggio musicale scelto per esprimerle
non è affatto secondario. |