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Ryan
Bingham & The Dead Horses
Roadhouse Sun
[Lost
Highway/ Universal 2009]
"The road it gives and the road it takes away" avrebbe detto Tom Russell:
per Ryan Bingham la strada è una necessità di vita, movimento come
esperienza, continua messa in discussione, ed oggi, aperta la breccia
con il precedete Mescalito,
la strada è anche uno sprone per descrivere, ingiustizia dopo ingiustizia,
la picchiata libera di una nazione. Ryan Bingham diventa politico? Non
scherziamo, lui resta sempre quel ragazzo cresciuto nella polvere del
South West fra rodei, honky tonks e sabati notte spesi a cavallo della
sua rock'n'roll band. La coscienza del songwriter ha però acquisito una
visione: nessuna resa ai clichè del circuito musicale texano, persino
una netta distanza dal rinascimento Americana. Roadhouse Sun
ha altri obiettivi, mette la faccia dentro il fango americano e se ne
esce con un disco che trasuda elettricità, sporcizia e baratta un briciolo
della poesia da troubadour (la ritrovate comunque intatta in Snake
Eyes e nella confessionale Rollin'
Highway Blues) che ci aveva così ammaliato in Mescalito.
Non è una rivoluzione copernicana, perché la voce di Bingham gratta ancora
la vernice della tradizione, eppure la produzione di Marc Ford (ancora
lui al timone) e le dinamiche dei fedelissimi Dead Horses spingono
verso il limite del precipizio una serie di ballate più sfacciate. L'effetto
sorpresa si sarà anche dissolto, ma nulla è così scontato in Roadhouse
Sun: nella sua sfrontatezza, nel dilatare un sound ormai riconoscibilissimo
(Bluebird è in tal senso un capolavoro
fatto di saliscendi), si tratta di un disco che traghetta Ryan Bingham
verso il definitivo affrancamento. Ora rimangono soltanto dodici sentieri
che marcano il territorio americano con un misto di rabbia, disincanto
e lirismo in cui trovano posto tanto le Country
Roads (palpitante ballata squarciata dall'armonica del protagonista)
e i ricordi familiari (la marcetta roots che incombe fra chitarre e mandolini
in Tell My Mother I Miss Her) quanto
le immagini nitide, sferzanti di un paese che implode dentro i suoi stessi
sogni. E' da questa parte del guado che si innalza il rantolo rock di
Ryan Bingham, lo scoppio improvviso che lacera Day
Is Done, atmosfera swamp surriscaldata in cui lo zampino sudista
di Marc Ford lascia un segno, ma assai di più l'evocazione in Dylan's
Hard Rain, country rock che getta lo sguardo sulla mappa degli
States feriti e costretti a rivivere le depressioni del passato.
Le vere frustate però si chiamano Change Is
- roboante, psichedelica, piena di curve e insidie - ed Endless
Ways, un pugno dritto in faccia (you want more money in
your hand/ you want more blood from a foreign land) al passo di chitarre
brulicanti e valvole bruciate: non è una parte inedita dell'artista, che
già all'esordio aveva palesato il suo generoso cuore elettrico, ma in
Roadhouse Sun il nostro sembra prendersi più libertà e più rischi, magari
risultando imperfetto (Hey Hey pare
un po' gettata al vento e confusa) ma alla resa dei conti sincero. Spiazzante
al punto che nel finale i Dead Horses al completo sentono l'esigenza di
tornare con i piedi per terra, fra il ballonzolare da saloon di Roadhouse
Blues, piano boogie e inconfondibile twangin', e l'incedere
rappacificante di Wishing Well. Cercatelo
ancora una volta sulla strada: Ryan Bingham vi aspetta sul suo van alla
prossima fermata.
(Fabio Cerbone)
www.binghammusic.com
www.myspace.com/ryanbingham
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