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American
Music Club
The Golden Age
[Cooking
Vinyl 2008]
L' "età dell'oro" degli American Music Club dovrebbe essere definitivamente
sepolta sotto la polvere di una carriera mai realmente decollata, sempre ad un
passo dalla completa consacrazione, quella che avrebbe permesso alla band di Mark
Eitzel di fare il salto dalla dimensione di culto alla ribalta del gotha rock.
E invece il loro nome resta scolpito fra i segreti della grande rivoluzione "altenativa"
a cavallo degli anni '90, condottieri di un rinnovamento folk rock che ha tracciato
la via a molti discepoli. Certo, non si può dire non si siano tolti delle soddisfazioni,
anche personali (si veda la ricca carriera solista dello stesso Eitzel), ma è
fuori discussione che l'apprezzamento negli ambienti delle college radio e di
una certa critica non abbiamo portato gli AMC ad occupare quelle posizioni di
prima fila che ci si sarebbe attesi.
Facile intuirne le ragioni con il senno di poi: lo spleen esistenziale
di Eitzel, le sue liriche profonde, confessionali, da cuore in mano e
quella dimensione insistentemente malinconica, non rappresentano una ricetta
adatta a tutte le sensibilità. Eppure l'idea di rispolverare questa avventura
non resta confinata in una sortita estemporanea: se qualcuno pensava al
come back di Love
Songs For Patriots (2004) come ad una semplice operazione di
nostalgia si è sbagliato di grosso, perché The Golden Age ne
rincorre le orme a distanza, presentando una formazione rinnovata e soprattutto
un suono mai così brillante. È il disco migliore dai tempi di Mercury,
una sequenza soprendentemente luminosa e di una serenità quasi inedita
(per quanto possano essere "serene" le ballate di Eitzel).
Prodotto da Dave Trumfio (Wilco, My Morning
Jacket) ai King Size Studios di Los Angeles, The Golden Age riporta in superficie
le chitarre essenziali di Vudi, meno appariscenti nell'episodio precedente,
imbarcando Sean Hoffman al basso e Steve Didelot alla batteria,
entrambi provenienti dall'esperienza The Larks, dando la sensazione di un lavoro
di squadra, meno frammentario e più propenso ad adattarsi al songwriting di Eitzel.
Il quale resta impagabile nel mettere a nudo la sua anima e quella dell'America
tutta (The Windows of the World): quel canto
amabile e terribilmente mesto potrà anche infastidire, ma ha fatto scuola. Come
non credergli quando intona una sintomatica All The Lost
Souls Welcome You To San Francisco, oppure decide di introdurci nel
suo mondo ovattato con lo schizzo folk etereo di All
My Love. Le sorprese di questo lavoro tuttavia arrivano dal già accennato
timbro elettrico e raggiante di alcuni episodi: il crescendo di The
Decibels And The Little Pills, semplicemente abbagliante, le lussuose
The Stars e One Step
Ahead, il pop ammiccante di Who Are You,
la struggente marcetta per fisarmonica e fiati di I Know
That's Not Really You, inframmezzate da quelle carezze elettro-acustiche
che hanno fatto giustamente storia…e d'altronde basterebbero i tre dolcissimi
minuti di The Dance per spazzare via tanti
presunti maghi del pop moderno. Ci fosse solamente un mondo che girasse nel verso
giusto. (Fabio Cerbone) www.american-music-club.com
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