Dan
Bern
Breathe
[Messenger
2006]
1/2
Avremmo scommesso su un finale diverso per Dan Bern. Nonostante
tutto non si riesce mai veramente ad abituarsi a certi ridimensionamenti,
questi ultimi spesso influenzati da condizioni esterne, promesse e paragoni
insostenibili, e buon ultimo il solito disinteresse generale. Il fardello
del "discepolo di Dylan" se lo porta appresso da una decina d'anni, dai
giorni di un omonimo esordio che aveva fatto gridare al miracolo, gettando
Dan Bern nella mischia delle nuove grandi voci della sua generazione.
Non aveva chiesto tali paragoni e senza dubbio non lo si può incolpare
per avere ostinatamente inseguito un particolare persorso artistico, consapevole
che il suo treno della fortuna era passato. Restava peraltro una carriera
da costruire e disco dopo disco Dan Bern si è svelato songwriter sarcastico
e pungente, rocker di solida fattura, poeta e sognatore, alternando prove
più o meno riuscite, ma sempre capaci di alzare l'attenzione dell'ascoltatore.
Breathe non difetta in tal senso della prodondità che siamo
soliti riconoscere al personaggio: liriche penetranti e mediamente superiori
all'offerta di tanti colleghi, una spiccata attitudine a guardarsi intorno
e a capire le ragioni di questo folle mondo, facendo domande e cercando
risposte, magari rivolgendosi ancora una volta con coraggio a Dio (la
lunga preghiera, oltre gli otto minuti di Past Belief). Musicalmente
tuttavia qualcosa si è spezzato e l'effervescenza giovanile si è smorzata
dentro un folk rock troppo prevedibile, nonostante la presenza del produttore
Chuck Plotkin facesse ben sperare. Rispetto alla foga protestaria
e divertita di My
Country II, o persino alla vivace tensione rock di Fleeting
days, Breathe è un disco che sembra riflettere la maturità
dell'uomo Dan Bern, meno caustico e più riflessivo, oggi disposto a raccontarci
storie intime e quotidiane. L'introspezione dei testi si è tradotta in
una sequenza di mid tempo e ballate che solo a tratti trovano ancora il
guizzo vincente: la slide guitar di Eben Grace che attraversa una
commossa Suicide Room e la già citata Past Belief sono forse il
connubio più convincente fra musica e parole. Quasi naturale poi lasciarsi
condurre dai sobbalzi di Feel Like a Man, con quell'armonica che
rimanda inevitabilmente all'ombra del maestro Dylan, così come dalle familiari
Another Man's Clothes e Breathe, ma si tratta appunto di
un film già visto e probabilmente con effetti più entusiasmanti in passato.
Da dolci filastrocche quali Trudy alle confessioni di Visit
in My Dreams, fino al rock'n'roll sbarazzino di Rain lo sviluppo
complessivo dell'intero disco risulta effettivamente "telefonato",
un gioco di autocitazioni.
(Fabio Cerbone)
www.danbern.com
www.messengerrecords.com
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