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inserito
14/03/2005
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Quello
che non finirà di sorpendere di Matt Ward, in arte semplicemente
M.Ward, oltre ad avere un lodevole stile fingerpicking alla chitarra
acustica e a possedere una deliziosa voce che culla dolcemente l'ascoltatore,
è la capacità di restare in prezioso equilibrio tra antico
e moderno, di suonare tremendamente old time nonostante utilizzi con malizia
i trucchi del moderno folk a bassa fedeltà. E' cresciuto alla scuola
di Howe Gelb (presente in studio con altri amici, tra cui John
Parish) e dei suoi Giant Sand, sotto la cui egida ha debuttato nel
'99 (Duet
for Guitar #2), e si sente in quell'approccio obliquo,
romantico e spigoloso al tempo stesso con il quale M Ward passa idealmente
in rassegna un secolo di storia musicale americana. Transistor
Radio è in tal senso l'apoteosi della sua filosofia, un
tributo all'epopea delle radio nazionali a cavallo tra le due guerre del
novecento, quando il paese conosceva una sorta di comunione culturale
di razze, attraverso gli stili che uscivano dalle onde dell'etere. Non
è uno sconvolgimento dei piani rispetto al già celebrato
Transfiguration
of Vincent, e la conferma di Mike Coykendall (leader
degli Old Joe Clarks) alla produzione ne è un segnale, semmai una
prosecuzione di quel linguaggio ormai del tutto personale che lo vede
scivolare tra canzone folk, riminiscenze country e blues, rock scheletrico
e primordiale, mantenendo quell'alone di fragilità che la sua voce
e le sue melodie mostrano al primo istante. C'è una grande omogeneità
in Transistor Radio, tale da renderlo il suo lavoro più compiuto,
seppure manchino forse i brani trainanti presenti nei due precedenti dischi.
Introduce l'arpeggio strumentale di You Still Believe
in Me e si apre un universo fatto di piccoli schizzi folk e country-blues
che sembrano sbucare dalla Grande Depressione (One Life Away, Oh
Take Me Back), soprattutto una lunga sequenza di ballate, dolcissime
e trasognate (Sweethearts on Parade, Hi-Fi, Paul's Song,
Radio Campaign), irresistibilmente classiche nelle loro armonie
(la struggente Fuel for Fire, una Deep Dark Well volutamente
retrò, Lullaby + Exile), eppure capaci di trasformarsi improvvisamente
in un blues aspro, oscuro, con una punta di Tom Waits nelle vene (Four
Hours in Washington), svicolare verso il border messicano (lo strumentale
Regeneration N°1, degna dei migliori Calexico) e esplodere
infine in un boogie sghembo e ubriaco (Big Boat, con Vic Chesnutt
e Jenny Lewis ai cori), guidato all'impazzata dal pianoforte. L'America
di ieri vista con gli occhi di un musicista moderno e un po' stravagante |