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inserito
20/10/2005
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Eppure
qualche dubbio mi rimane. Com'è possibile che questo album, apprezzato
all'unanimità da tutta la stampa di settore, provenga dallo stesso uomo
che l'anno scorso ci aveva deliziato con il vibrante Great
American Song Series Vol.1: The Street Was Always There? Magari
mi sbaglio, magari riascoltandolo tra qualche anno scoprirò una piccola
pietra miliare fraintesa e sottovalutata, ma tanto quel disco mi era piaciuto,
tanto questo secondo volume, Waves, lo trovo retorico,
noioso, accartocciato su se stesso. Mi spiego meglio. Ritengo che il valore
dell'album precedente stesse nella sua indiscutibile capacità di aggiornare
brani vetusti a nuovi contesti e nuove circostanze, tra l'altro traducendoli
di volta in volta con sciolta naturalezza e rinnovato slancio. Se GASS
Vol.1 pescava in un serbatoio di canzoni risalenti agli anni '60 scegliendo
proprio quelle dal più evidente contenuto politico e contestatario, Waves
frequenta sì la stessa decade, ma stavolta cercando di assaporarne i frutti
più poetici e visionari, quelli meno compromessi con le istanze della
denuncia sociale (anche se le eccezioni, è ovvio, non mancano). Registrata
la legittimità della scelta, che naturalmente sarebbe assurdo discutere
a priori, non posso fare a meno di rilevare come il buon vecchio Eric
Andersen, che pure un folk-singer o un songwriter "politico" nel senso
più castrante e limitativo del termine non lo è mai stato, sembri in questa
occasione assai più timido, contratto e titubante che nel disco di un
anno fa. L'esempio più probante, in tal senso, è la Pale Blue Eyes
dei Velvet Underground, proposta in una versione talmente sciapa e catatonica
che viene da chiedersi quale senso possa avere confrontarsi con modelli
talmente distanti, se non si ha uno straccio di idea da portargli in dote.
Suscitano altrettante perplessità Once I Was (Tim Buckley), I've
Got A Secret (Fred Neil), Golden Bird (Happy Traum) e Coconut
Grove (Lovin' Spoonful), proposte in riletture troppo aderenti agli
originali per avere un senso compiuto, mentre va un po' meglio con il
classico rigore folk di Ramblin' Boy (Tom Paxton) e Changes
(Phil Ochs). Considerato poi che il trattamento pseudo-rock cui viene
sottoposta la John Brown di Bob Dylan è di una banalità sconcertante
(più riuscito, sebbene si muova sugli stessi binari, l'omaggio al Richard
Farina di Bold Marauder) e che l'unica composizione nuova - Hymn
Of Waves - si dimostra più efficace di un Tavor per i problemi d'insonnia,
direi che i soli episodi realmente meritori di Waves finiscono per essere
le nuove versioni delle autografe Today Is The Highway e Thirsty
Boots, quest'ultima (registrata dal vivo a San Diego nel 2002) con
l'accompagnamento di vecchie glorie quali Judy Collins, Arlo
Guthrie e Tom Rush. Mi spiace per Eric Andersen, ma dopo quarant'anni
di carriera e più di venti album all'attivo un passo falso può capitare
a tutti. |