Si
potrebbe accusare l'Eric Andersen degli ultimi tempi di aver speculato
un po' troppo sul proprio passato, sul fatto di aver condiviso palchi e speranze
con Bob Dylan, sul fatto di essere appartenuto a quella comunità di sognatori
tra happenings folk, letteratura beat e concerti jazz a suo tempo pascolante il
newyorchese Greenwich Village. Si potrebbe, anche perché i recenti lavori
targati Appleseed - Memory Of The Future (1998), You Can't Relive The Past ('00),
Beat
Avenue ('03) - su questo passato indugiano in forma quasi ossessiva,
pur essendo tutti e tre diversamente belli, importanti e significativi. E in somma
franchezza, dopo un primo sguardo alla copertina del nuovo Great American
Song Series Vol.1: The Street Was Always There, dalla quale il nostro
ci guarda appoggiandosi al lampione dell'incrocio tra le strade Bleecker e MacDougal
(già immortalate da Fred Neil in un omonimo lp del '65), è impossibile reprimere
un moto di fastidio. Ancora?, verrebbe voglia di chiedere. Sì, ancora, il perpetuo
homecoming di Eric Andersen continua a reiterarsi anno dopo anno, indifferente
alle mode e alle tendenze, e per conto mio gli perdonerò non solo simile insistenza,
ma persino l'immodestia con cui, una volta presa la decisione di realizzare un'intero
album composto da riletture di classici folk degli anni '60, s'è inserito nel
pantheon dei grandissimi dell'epoca, tornando a interpretare la peraltro stupenda
Waves Of Freedom (stava su A Country Dream del '69). Perché? E' presto
detto: perché, per quanto mi sforzi, nei suoi album non riesco mai a trovare soltanto
la mera calligrafia di quanto vissuto (che pure, inutile negarlo, talvolta affiora)
o la sterile nostalgia del tempo che fu; impegno, dedizione, cura maniacale nei
confronti dei suoni e delle sfumature di scrittura sono caratteristiche che Andersen
non ha mai messo da parte, e riaffiorano puntuali anche in questa nuova circostanza.
Fatta eccezione per una non memorabile A Hard Rain's A-Gonna Fall e per
un inedito - la title-track - di media caratura, il programma dell'album si estrinseca
con la felicità delle migliori occasioni. Spiccano la doppia rilettura di Fred
Neil, ora dolcissimo (Little Bit Of Rain) ora più elettrico e bluesy (The
Other Side Of This Life, con l'armonica di John Sebastian dei Lovin'
Spoonful), il respiro stradaiolo conferito a David Blue (These 23 Days In September),
l'elettricissimo rock'n'roll rovesciato su Buffy Sainte-Marie (Universal Soldier),
le jazzate carezze di Tim Hardin (Misty Roses) e, soprattutto, una trascinante,
epica White Boots Marching In A Yellow Land di Phil Ochs tra rock e reggae,
potenziata da liriche e sonorità attualissime grazie all'aiuto di Wyclef Jean.
Quindi, amici miei, non vi traggano in inganno i nomi di Patrick Sky o Peter LaFarge,
anch'essi ivi omaggiati: questo non è un disco che parla coniugando i propri verbi
al passato remoto. Ci dice anzi che, oggi come allora, le parole possono tornare
a ferire, contrastandoli, quanto i proiettili. (Gianfranco Callieri)
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