Devo
ammettere che le mie attenzioni sono ricadute su Mark Ambrose soprattutto
dopo aver letto i nomi di David Rawlings e Gillian Welch,
entrambi coinvolti nella produzione e registrazione di questo Put
the Hammer Down. Probabilmente si tratta dello stesso obiettivo
che aveva in testa il buon Ambrose, quello cioè di sfruttare la realtiva
fama di due affermati musicisti sul panorama roots americano per mettere
finalmente in luce il suo lavoro. Questo songwriter di stanza ad Austin
ha infatti già inciso due dischi compleamente autoprodotti e indipendenti,
tra i quali Shadow on the Moon gli è valso qualche buona critica a livello
locale. Un paio di anni fa si è ritrovato ospite nell'ultima uscita della
Welch, Soul
Journey, suonandoci la chitarra, e da quel momento è nata una
stima reciproca che è sfociata nelle qui presenti dodici canzoni, registrate
a Nashville. Rawlings si occupa del mixer così come di tutte le
parti di chitarra solista; la Welch armonizza ai cori, imbraccia il basso
e siede persino dietro la batteria in un episodio; a completare ci sono
David Steele ai tamburi e Matt Andrews al piano. Con una formazione
spartana dunque, ed un approccio assolutamente informale, Mark Ambrose
mette in mostra un gran talento, tanto che non esito a considerare Put
the Hammer Down come una delle sorprese dell'anno in fatto di Americana
e country d'autore. Non si tratta perciò di un bluff, e non c'erano
dubbi visti i personaggi coinvolti: le canzoni sono semplicissime, e proprio
per questo di una bellezza disarmante. Ambrose ha mangiato a pranzo e
cena un'intera collezione di vinili di Bob Dylan e John Prine, magari
facendo colazione con Guy Clark e Townes Van Zandt, questi a grandi linee
i suoi punti di riferimento. Il sound scarno e elettro-acustico conferma
tali impressioni: un disco fuori del tempo, anacronistico, che potrebbe
essere stato inciso una trentina di anni fa. Si passa dal pigro country
blues di Out of Control, My Little Pony e Uh-huh
al rock'n'roll più tradizionale con Going to New Orleans (atmosfere
vintage anni cinquanta con tanto di piano boogie) fino a toccare i momenti
più cantautorali, dove Ambrose sfodera spesso un'armonica che più dylaniana
di così si muore. Dolcissime le ballate, tra cui segnalo per intensità
Kingsville Town, l'accoppiata Can't Lie to Mama e Halleluja,
entrambe condotte in una purezza di stile country-folk alla John Prine,
ma soprattutto il duetto con la Welch in Banks of Jordan. "Queste
canzoni evocano melodie che erano dentro di te per mesi o persino anni",
così recitano le note di presentazione: un dejà vù piacevolissimo, un
piccolo grande cantastorie
(Davide Albini)
www.markambrose.com
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