Gillian Welch - Soul Journey Acony 2003 1/2

I primi verdetti della stampa specializzata americana, divisi tra osanna e critiche spietate, sembrano riflettere la complessità di Soul Journey: definito dalla stessa Gillian Welch come il suo disco più solare, è in realtà una raccolta di canzoni molto più ambizosa rispetto al passato. Per contrasto la struttura dei brani è assai scarna, incentrata esclusivamente sulla melodiosa vocalità della protagonista ed un accompagnamento mai invadente. Certo, lasceranno un po' spiazzati le presenze più massicce di batteria, organi e chitarre elettriche, elementi che solo sporadicamente (e in gran parte relegati al suo primo disco) avevano fatto capolino nella musica di questa principessa dell'Americana sound. Il concetto è adattabile alla perfezione per un artista come la Welch, da sempre paladina di un recupero delle radici più ancestrali della folk music dei monti Appalachi, ballate acustiche sospese ad un filo, fuori del tempo, con un respiro religioso. In Soul Journey non si verificano stravolgimenti imprevedibili del suo sitle, per natura sempre fedele all'essenzialità delle sue fonti di ispirazione, ma in qualche modo si contrappongono un afflato soul ed una semplicità d'esecuzione che contrastano con il precedente, oscuro e strepitoso, Time The Revelator. La presenza di Greg Leisz (dobro), Jim Boquist (basso, ex Son Volt), Ketch Secor (fiddle) e Mark Ambrose (chitarre) dona al disco una dimensione meno solitaria e lo stesso fedele compagno David Rawlings (chitarre e strumenti assortiti) è oggi relegato ad un ruolo meno incisivo. Le oasi acustiche restano in ogni caso atti di assoluta purezza folk, sublimate nelle cover di Make Me a Pallet On Your Floor e I Had A Real Good Mother and Father, anche se il nuovo corso è simboleggiato dalla corale Wayside/Back in Time, dall'andamento sontuoso di Look at Miss Ohio e dall'ombrosa One Monkey. La dolcissima No One Knows my Name appare come un refuso del passato, country music rurale con banjo e fiddle sbucata dagli anni trenta: è il brano che più si lega al passato della Welch, insieme all'angelica I Made a Lovers Prayer, mentre il finale è tutto nelle mani dell'elettrica Wrecking Ball, ballata country-rock dai profumi seventies che stende tutto il fascino anti-modernista di questa cantautrice.
(Fabio Cerbone)

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