The Vacant Lots
"Psychedelic nightscapes", intervista


a cura di Gianfranco Callieri
foto di © Cristina De Maria


Come tutte le forme di musica con una storia alle spalle, anche il cosiddetto psych-rock, diventato "genere" durante gli anni '60 e incentrato sui concetti di ripetizione e atonalità, è da qualche tempo a questa parte al centro di molteplici forme di omaggio, revival, celebrazione. Tra questi, uno dei più consapevoli e interessanti, nonché dei meno nostalgici, appare proprio essere quello messo in atto dai Vacant Lots, due musicisti di Burlington, Vermont, infinitamente meno famosi dei concittadini Phish, e nondimeno sostenuti da nomi di prestigio quali Alan Vega (Suicide), Sonic Boom (Spacemen 3) e Dean Wareham (Galaxie 500, Luna), tutti in un modo o nell'altro coinvolti nelle tappe discografiche del duo, a oggi due sette pollici, un extended e un lp fresco di stampa, l'ottimo Departure (Sonic Cathedral, 2014). Ho conosciuto Jared Artaud (cognome d'arte prelevato dall'omonimo Antonin di Per Farla Finita Col Giudizio Di Dio) e Brian MacFadyen in occasione del loro primo mini-tour italiano e, nonostante le evenienze non proprio felicissime (poco pubblico, poca visibilità delle sedi dei concerti, poca comprensione da parte di organizzatori e colleghi di cartellone, i primi convinti chissà perché di trovarsi fra le mani un gruppo metal, i secondi per nulla tolleranti rispetto alle esigenze tecniche di una band il cui soundcheck richiedeva una serie di accorgimenti supplementari), sono rimasto colpito dalla loro disponibilità, dalla totale, scrupolosa dedizione al proprio lavoro, dalle numerose peculiarità di un suono dove le crude dissonanze dei Velvet del secondo album, le ossessioni elettroniche e minimaliste dei Suicide, il cupo post-punk dei primi '80 e il motorik ritmico di certo rock tedesco, ma anche i beat sintetici e metropolitani di artisti contemporanei come Cold Cave o Prurient, trovano un ipnotico e caratteristico punto di equilibrio.

Benché giovanissimi, il chitarrista Artaud (26) e il tastierista MacFadyen (21) curano i loro progetti con meticolosità d'altri tempi, arrivando persino a girare, selezionare e montare le immagini delle videoproiezioni spesso effettuate durante i concerti, a inventarsi strumenti (alle esibizioni trovate in vendita pure un fuzzbox creato da loro e disegnato da Anthony Ausgang) e a confezionare personalmente ogni dettaglio dei loro album, ciascuno di essi contraddistinto da una ricerca grafica in cui s'intrecciano estetica visiva e suggestione acustica. Non è semplice né comodo, a volte, confrontarsi con musicisti completamente assorbiti dal proprio percorso concettuale, sicché anche la dimensione artistica dei Vacant Lots, disseminata da rimandi alla poesia simbolista francese (Artaud ha pubblicato un libro di componimenti intitolato Empty Space, reperibile al sito www.dactylpoetry.com, i cui versi risuonano da qualche parte tra Baudelaire e Jim Carroll), al cinema europeo più rigoroso, alla New York sotterranea e schizoide dei Television, all'astrattismo geometrico delle avanguardie russe, al cavernoso primitivismo del r'n'r delle origini, al dionisiaco punk-blues dei primi Gun Club e chi più ne trova più ne aggiunga, può sembrare in certe occasioni addirittura presuntuosa.

Ma al tempo stesso, è proprio questo non risparmiarsi, quest'ansia di caricare di significato espressivo anche la più infinitesimale delle circostanze, a rendere i due non solo diversi e molto più interessanti rispetto a qualsiasi dopolavorista nazionale e non soltanto: l'esuberanza stilistica dei Vacant Lots corrisponde al loro essere anticonvenzionali, al farsi carico della pretesa, assurda e entusiasmante, di dire tutto - considerare l'oggetto-disco un'opera d'arte, personalizzare la strumentazione, mescolare testi, poesia, canzoni, cinema e discipline visive - in un periodo storico in cui qualsiasi spunto viene masticato, digerito e poi espulso a velocità disumana. Per motivi identici, ecco che la cifra linguistica di Departure, dal garage-rock sintetico dell'iniziale Mad Mary Jones ai dieci minuti di disarticolazione urbana inscenati su Make The Connection, dalla psichedelia stagionata di Before The Evening's Thru e Tomorrow (con un grande assolo del citato Wareham) al feroce, nevrotico quadro di alienazione notturna della straordinaria 6am, dall'incubo scheletrico di Never Satisfied (tributo multiplo a Cramps e Stooges) alle delicate percussioni elettroniche della malinconica Paint This City, risulta, anziché suonare già sentita, la logica prosecuzione di un discorso sulle sinfonie di rumore, sulle paranoie, sugli angoli e le luci delle grandi città iniziato tanti anni prima dai Velvet e dal punk newyorchese. Troppi pretesti e troppi stimoli, insomma, per non cercare di approfondirli con i diretti interessati.

thevacantlots.bandcamp.com


L'intervista
a cura di Gianfranco Callieri


Iniziamo dai vostri esordi. Ormai siete insieme da un po'.

JARED: Sì, abbiamo cominciato a scrivere musica assieme nel 2009. Io avevo messo in giro un annuncio per trovare un batterista e quando si è presentato Brian ho subito capito di avere di fronte la persona giusta. Nei primi tempi ci incontravamo durante i fine settimana per suonare, suonare, suonare. Nel 2010 siamo stati invitati da Sonic Boom per qualche data dal vivo dei suoi Spectrum, e forse anche grazie a quell'esperienza le nostre canzoni hanno iniziato a prendere forma. Un anno dopo è uscito il primo singolo, su etichetta Mexican Summer, e questo luglio sono arrivati l'ep Arrival e l'album d'esordio, Departure. Nel 2012, al Psych Fest di Austin, Texas, incontrammo Anton Newcombe dei Brian Jonestown Massacre, col quale inaugurammo un bel rapporto d'amicizia; quest'estate siamo stati con loro per una serie di serate in Inghilterra e oggi eccoci qui, in Italia.

A parte la stranezza dei posti dove avete suonato qui da noi, l'Europa sembra avervi accolto con calore. Anche la vostra casa discografica, la Sonic Cathedral, è britannica.

JARED: Senz'altro in Europa abbiamo trovato diverse persone, dalla stampa al pubblico dei concerti, che sembrano capire alla perfezione il nostro progetto. Le cose sono andate molto bene anche in Francia e in Spagna. La prossima primavera contiamo di tornare in Europa e includere nel tour anche la Germania e di nuovo l'Italia. La Sonic Cathedral ci ha garantito massima libertà creativa quando altre etichette, ti assicuro anche in ambito indie, pretendono di avere l'ultima parola su qualsiasi cosa. Inoltre ci hanno esortato a credere in noi stessi e a non curarci troppo dei giornalisti o di chi avrebbe potuto cercare di smontare il nostro lavoro. Il loro supporto è stato fondamentale, come anche il riscontro degli ascoltatori inglesi.

BRIAN: Meglio suonare in Inghilterra in locali anche piuttosto grandi e sold-out che in America di fronte a quattro gatti. In patria ci è capitato di suonare anche di fronte a due persone soltanto. Una sera, in un locale, non c'è stato proprio nessuno. Anzi, eravamo in tre: io, Jared e il barista.

Ma riuscite a sopravvivere grazie alla musica?

BRIAN: No, non ancora. Al momento è molto complicato, anche se il fatto di suonare in due ci consente di raggiungere i nostri obiettivi in modo meno oneroso e, spero, anche più concentrato, efficace.

JARED: Tutti e due abbiamo un altro lavoro, Brian ce l'ha e io, be', lo avevo. Sai, non puoi andare dal tuo titolare e dirgli, buongiorno, mi prendo tre mesi di ferie per andare in tour in Europa. Cioè, puoi farlo, se vuoi essere licenziato all'istante. E poi fare dischi e andare in giro per esibirsi, spesso pagando di tasca propria il carburante per gli spostamenti, resta estremamente costoso.

Diteci qualcosa sulla genesi di Departure.

JARED: È stato un processo molto naturale. Abbiamo passato una buona parte del 2012 scrivendo musica e accumulando pezzi finché l'anno dopo, in una settimana circa, abbiamo registrato la maggior parte del disco nelle sale della Water Music di Hoboken, New Jersey, con l'ingegnere del suono Ted Young. A parte due brani, Before The Evening's Thru e Mad Mary Jones, quest'ultima incisa a Austin con Brett Orrison, il tecnico dei Black Angels, l'intero album ha preso vita lì. Siamo stati abbastanza fortunati da avere Sonic Boom al mixer e alla masterizzazione finale del lavoro, lui è una persona molto divertente, talvolta anche stravagante, ma la sua capacità di finalizzazione in senso professionale si è rivelata strepitosa. Dobbiamo molto a tutte le persone che hanno contribuito a rendere Departure quello che è, un album di cui andiamo molto fieri.

Oltre al missaggio di Sonic Boom, in Tomorrow appare la sei corde di Dean Wareham. Si è trattato di ospitate casuali, o fin dall'inizio avevate in mente di collaborare con questi personaggi?

JARED: Per noi era molto importante poter lavorare con persone che capissero e condividessero la nostra visione, in modo da poterci aiutare a concretizzarla. Sonic e Dean hanno fatto proprio questo, ci hanno dato l'opportunità di rendere vivo e reale il suono che ci eravamo immaginati. Per contattarli, in realtà, abbiamo fatto una cosa molto semplice, e cioé spedito dei demo della nostra musica agli artisti dai quali siamo stati influenzati. Loro ci hanno risposto subito, e con entusiasmo, dichiarandosi pronti a prendere parte all'iniziativa.

Avete conosciuto Alan Vega nello stesso modo?

JARED: Avevamo partecipato a una compilation natalizia, un po' particolare, uscita su Cleopatra nel 2013, Psych-Out Christmas. Si trattava di un album con cover di brani natalizi eseguite da Fuzztones, Dead Meadow, Iggy Pop etc. Noi rifacemmo No More Christmas Blues, brano dei Suicide poco noto ma straordinario, tratto da un album altrettanto straordinario come A Christmas Records, una raccolta di temi natalizi alternativi e sperimentali pubblicata nel 1981 dalla ZE Records. Così mandammo la nostra cover a Vega e questi, con nostro sommo stupore, ci rispose quasi subito manifestando entusiasmo e voglia di realizzare qualcosa con noi. Eravamo al settimo cielo: capirai, i Suicide sono stati i nostri Beatles... Apprezziamo molto il lavoro di Alan non solo in ambito musicale ma anche come artista visivo. Ci ha accolto in casa sua e ci ha trattati con grande rispetto. È un uomo fragile, nel fisico almeno, però ancora animato da un'irrefrenabile vitalità. Così abbiamo fatto un dieci pollici assieme, da un lato la sua Nike Soldier, dall'altro una versione alternata della nostra Mad Mary Jones, e lui ci ha regalato un suo remix di 6am. È stata un'esperienza incredibile. Più in generale, per quanto riguarda il nostro rapporto con gli artisti, posso dirti di non aver avuto nessun timore a chiedere un parere a chi, nel corso degli anni, è stato importante per noi. Questo ci ha permesso di fare degli incontri pazzeschi, talmente significativi, in termini di ispirazione, da farmi solo sperare di poter fare la stessa cosa, in futuro, con altri giovani.

Voi venite da una città relativamente piccola, ma nella vostra musica ci sono molti riferimenti, direi quasi "sensoriali", alla New York elettrica delle mille luci, al caos metropolitano; le liriche sono infarcite di immagini notturne, di scene ambientate all'alba, quando l'agglomerato della città si risveglia e torna a respirare.

BRIAN: Ok, Burlington è una città carina, io ho un piccolo studio dove possiamo esercitarci e mettere insieme i nostri collage di suono, ma in fondo, in effetti New York è a un passo, c'è solo un lago a separare i due posti. Comunque io ho sempre amato moltissimo tutta la scena gravitante intorno al CBGB's; il punk, ovviamente, e dopo il punk la no-wave, ovvero l'idea non solo che chiunque potesse suonare, ma che chiunque potesse suonare qualsiasi cosa, rendendo eloquente la spigolosità sgrammaticata del suono della chitarra, sì, però anche di percussioni, tastiere, amplificatori scassati e così via.

JARED: Io sono cresciuto a New Brunswick, una delle cittadine del New Jersey a sud-ovest di Manhattan e sono sempre stato affascinato non solo da quanto proveniva da New York, dalla musica dei Velvet Underground, di Richard Hell, dei Television, delle New York Dolls, ma proprio dai rumori della città, dai suoi rumori nascosti. Ricordo quando da piccolo mi mettevo in ascolto, prima di addormentarmi, per catturare il concerto di sirene, motori, cancellate in movimento, vagoni della metropolitana e mezzi pubblici scaturito dalle strade... Per me si trattava di una musica meravigliosa, e forse della singola entità in assoluto più influente sulla mia visione artistica. Quella, e la poesia francese, le poesie di Baudelaire, Rimbaud, Lautréamont. Sono un osservatore della vita urbana, amo le città molto più della campagna; amo le luci, le oscillazioni del traffico, il ritmo silenzioso delle lingue d'asfalto.

Leggendo i vostri testi, che scrivete entrambi, con uno stile piuttosto simile, sembra sempre di ritrovarsi sul marciapiede di una grande città, prima del sorgere del sole, frustati in viso dal freddo.

BRIAN: Per me si tratta di una specie di flusso di coscienza, di un modo per fermare su carta le percezioni del cervello, anche nelle sue fasi di alterazione. Se un testo mi sembra buono, deve rimanerlo nel giro di una o due riscritture, non di più...


E quali sono i modelli di questo flusso di coscienza?

BRIAN: La vita, gli ascolti, le persone... Voglio dire, se ascolti 6am, è chiaro che le immagini delle canzone, le strofe del tipo "alla pompa di benzina / con la mia signora / più morta che viva" sono evidentemente ispirate al vecchio blues, soprattutto a Lightnin' Hopkins... Poi ci sono i flash della vita di tutti i giorni.

JARED: Per me è sempre stata basilare la poesia, scoperta anche attraverso i testi degli Stooges, dei Velvet, dei Doors... E soprattutto l'idea di poter introdurre la poesia nei testi del rock'n'roll. Volevo essere uno scrittore dall'età di sette anni, e questa esperienza mi consente di radunare poesia, estetica e musica in un unico contenitore, posso scolpire idee e frasi e musicare concetti e immagini. Posso dare vita al mio viaggio verso l'ignoto e dargli un significato...

Le stesse idee stanno alla radice dei materiali audiovisivi proiettati durante i concerti?

JARED: Sì, è in entrambi i casi un tentativo di essere molto primitivi, assolutamente viscerali, eppure anche studiati e raffinati, tutto in un'unica soluzione. È come se da un segmento artistico ne nascesse un altro e tutto fosse in costante collegamento. Cerchiamo di incorporare tutte le forme d'arte possibili. Cinema, grafica, suoni, arti visive... Tutto è ugualmente importante. Per quanto mi riguarda, per esempio, il cinema di Robert Bresson, Federico Fellini, Ingmar Bergman o Andrej Tarkovskij è significativo quanto il free-jazz di Albert Ayler o la voce di Jeffrey Lee Pierce. Sono attirato e ispirato da tutte le produzioni costantemente in bilico, quelle dove avverti che tutto sta avvenendo nell'unico modo possibile - il più indicato, il migliore - e al tempo stesso hai la sensazione che tutto potrebbe cambiare all'improvviso, da un momento all'altro. Nei miei lavori cerco di esplorare la possibilità di far diventare poesia le parole di una canzone, installazioni artistiche le immagini alle nostre spalle.

Prima parlavi di "primitivismo", vuoi spiegarmi il concetto?

JARED: Non so se sono in grado di farmi capire, ma è come se nella mia mente avessi una certa idea di suono... non necessariamente un wall of sound nel senso di Phil Spector, direi piuttosto una army of sound, una truppa armata di suono, dove all'orizzonte appaiono i suoni della città, ottenuti partendo dallo spirito di Bo Diddley e Link Wray, per evocare i quali mi affido, soprattutto dal vivo, al tremolo della mia Vox Phantom XII a dodici corde (mentre in studio uso anche una Gretsch Country Gentleman quasi identica alla 6122 di Chet Atkins), e poi processando le loro intuizioni attraverso una sinfonia rumorista di ampli, electronics e pedali...

BRIAN: In studio utilizziamo sempre due ampli Silvertone 1484 molto pratici... da noi li puoi comprare al centro commerciale, in fondo, e il fatto siano modelli cablati a mano ne incoraggia eventuali modifiche autoprodotte. È stato ascoltando il suono della mia batteria, che ho suonato per diversi anni, anche dal vivo (ogni tanto la suono ancora), riprodotto attraverso i Silvertone che ho capito come utilizzare le tastiere in modo non convenzionale, sfruttandole per ottenere e stravolgere i battiti del drum-kit. Nel farlo, è ovvio, ho avuto determinati modelli di ispirazione: Gillian Gilbert (New Order), Martin Rev (Suicide), i Kraftwerk. Siamo solo in due, io e Jared, ma vorremmo portare il nostro suono ai confini di quanto può essere prodotto da una band di due elementi.

Tra l'altro le tue percussioni, organiche o sintetiche, hanno sempre un tocco molto tribale. Ho letto da qualche parte che sei un appassionato delle prime cose di Dr John.

BRIAN: Amo i suoi primi album, Gris-Gris in particolare, quei suoni completamente affogati nel mix, come se gli strumenti stessero sprofondando in una palude di sabbie mobili. Quando lo ascolti la prima volta ti chiedi come accidenti l'abbiano registrato, perché i livelli sembrano tutti sbagliati, poi però ti rimane nella testa, diventa una specie d'infezione. Arriva il punto in cui lo canticchi e lo fischietti pure. È affascinante: ha ottenuto i suoni che voleva semplicemente facendo leva su di uno stratagemma di studio, ha preso le tipiche jam funky di New Orleans e le ha rese fottutamente spaventose mixandole in modo imprevedibile.

Abbiamo parlato a lungo dei vostri amori, musicali e non solo, e mi sembra di poter dire siate affascinati da cose - Dr John, Gun Club, Velvet Underground - in grado di trasmettere un certo senso di spavento e minaccia... Ascoltando il vostro album mi è venuto in mente anche il John Cale più claustrofobico, almeno quello di Fear e Music For A New Society.

JARED: Non so se si tratti di paura o di una percezione di minaccia incombente...

BRIAN: John Cale sarebbe comunque il bassista del gruppo dei miei sogni.

JARED: In primo luogo si tratta di spremere tutta l'intensità disponibile da elemento a disposizione, una svisata di chitarra come la copertina di un disco. Direi piuttosto che sono affascinato da tutti quegli artisti in grado di estrarre un ordine, una geometria, un disegno o una traiettoria, dal caos apparente. Quelli in grado di trovare un'intersezione inconfondibile tra confusione e pianificazione. In questo senso penso che i primi due album degli Stooges restino insuperabili. Se li ascolti ti sembra di essere davanti alla colonna sonora di un'orgia infernale, ma nei fatti sono anche tremendamente incisivi e appuntiti, sanno con esattezza matematica dove andare a parare.

In ultimo, vorreste dirmi come diavolo si fa a chiamare una band Vacant Lots ("terreni sfitti"), visto che cercandovi su Google saltano fuori solo inserzioni di agenzie immobiliari?

BRIAN: È vero! Ma ricordo ancora quando Jared venne da me con una lista di nomi possibili: "Vacant Lots" colpì subito nel segno...

JARED: E una volta era molto peggio! Ora su Google siamo indicizzati meglio... Comunque il nome viene da una frase in un libro di William Burroughs, "being in the chemical gardens of vacant lots"... Appena la lessi capii di aver trovato il nome giusto.



   





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