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The
Vacant Lots Ma al tempo stesso,
è proprio questo non risparmiarsi, quest'ansia di caricare di significato espressivo
anche la più infinitesimale delle circostanze, a rendere i due non solo diversi
e molto più interessanti rispetto a qualsiasi dopolavorista nazionale e non soltanto:
l'esuberanza stilistica dei Vacant Lots corrisponde al loro essere anticonvenzionali,
al farsi carico della pretesa, assurda e entusiasmante, di dire tutto - considerare
l'oggetto-disco un'opera d'arte, personalizzare la strumentazione, mescolare testi,
poesia, canzoni, cinema e discipline visive - in un periodo storico in cui qualsiasi
spunto viene masticato, digerito e poi espulso a velocità disumana. Per motivi
identici, ecco che la cifra linguistica di Departure, dal garage-rock
sintetico dell'iniziale Mad Mary Jones ai dieci minuti di disarticolazione
urbana inscenati su Make The Connection, dalla psichedelia stagionata di
Before The Evening's Thru e Tomorrow (con un grande assolo del citato
Wareham) al feroce, nevrotico quadro di alienazione notturna della straordinaria
6am, dall'incubo scheletrico di Never Satisfied (tributo multiplo a
Cramps e Stooges) alle delicate percussioni elettroniche della malinconica Paint
This City, risulta, anziché suonare già sentita, la logica prosecuzione di
un discorso sulle sinfonie di rumore, sulle paranoie, sugli angoli e le luci delle
grandi città iniziato tanti anni prima dai Velvet e dal punk newyorchese. Troppi
pretesti e troppi stimoli, insomma, per non cercare di approfondirli con i diretti
interessati. |
L'intervista
Iniziamo dai vostri esordi. Ormai siete insieme da un po'. JARED: Sì, abbiamo cominciato a scrivere musica assieme nel 2009. Io avevo messo in giro un annuncio per trovare un batterista e quando si è presentato Brian ho subito capito di avere di fronte la persona giusta. Nei primi tempi ci incontravamo durante i fine settimana per suonare, suonare, suonare. Nel 2010 siamo stati invitati da Sonic Boom per qualche data dal vivo dei suoi Spectrum, e forse anche grazie a quell'esperienza le nostre canzoni hanno iniziato a prendere forma. Un anno dopo è uscito il primo singolo, su etichetta Mexican Summer, e questo luglio sono arrivati l'ep Arrival e l'album d'esordio, Departure. Nel 2012, al Psych Fest di Austin, Texas, incontrammo Anton Newcombe dei Brian Jonestown Massacre, col quale inaugurammo un bel rapporto d'amicizia; quest'estate siamo stati con loro per una serie di serate in Inghilterra e oggi eccoci qui, in Italia. A parte la stranezza dei posti dove avete suonato qui da noi, l'Europa sembra avervi accolto con calore. Anche la vostra casa discografica, la Sonic Cathedral, è britannica.
JARED: Senz'altro in Europa abbiamo trovato diverse persone, dalla stampa al pubblico
dei concerti, che sembrano capire alla perfezione il nostro progetto. Le cose
sono andate molto bene anche in Francia e in Spagna. La prossima primavera contiamo
di tornare in Europa e includere nel tour anche la Germania e di nuovo l'Italia.
La Sonic Cathedral ci ha garantito massima libertà creativa quando altre etichette,
ti assicuro anche in ambito indie, pretendono di avere l'ultima parola su qualsiasi
cosa. Inoltre ci hanno esortato a credere in noi stessi e a non curarci troppo
dei giornalisti o di chi avrebbe potuto cercare di smontare il nostro lavoro.
Il loro supporto è stato fondamentale, come anche il riscontro degli ascoltatori
inglesi. Ma riuscite a sopravvivere grazie alla musica? BRIAN:
No, non ancora. Al momento è molto complicato, anche se il fatto di suonare in
due ci consente di raggiungere i nostri obiettivi in modo meno oneroso e, spero,
anche più concentrato, efficace. Diteci qualcosa sulla genesi di Departure. JARED: È stato un processo molto naturale. Abbiamo passato una buona parte del 2012 scrivendo musica e accumulando pezzi finché l'anno dopo, in una settimana circa, abbiamo registrato la maggior parte del disco nelle sale della Water Music di Hoboken, New Jersey, con l'ingegnere del suono Ted Young. A parte due brani, Before The Evening's Thru e Mad Mary Jones, quest'ultima incisa a Austin con Brett Orrison, il tecnico dei Black Angels, l'intero album ha preso vita lì. Siamo stati abbastanza fortunati da avere Sonic Boom al mixer e alla masterizzazione finale del lavoro, lui è una persona molto divertente, talvolta anche stravagante, ma la sua capacità di finalizzazione in senso professionale si è rivelata strepitosa. Dobbiamo molto a tutte le persone che hanno contribuito a rendere Departure quello che è, un album di cui andiamo molto fieri. Oltre al missaggio di Sonic Boom, in Tomorrow appare la sei corde di Dean Wareham. Si è trattato di ospitate casuali, o fin dall'inizio avevate in mente di collaborare con questi personaggi? JARED: Per noi era molto importante poter lavorare con persone che capissero e condividessero la nostra visione, in modo da poterci aiutare a concretizzarla. Sonic e Dean hanno fatto proprio questo, ci hanno dato l'opportunità di rendere vivo e reale il suono che ci eravamo immaginati. Per contattarli, in realtà, abbiamo fatto una cosa molto semplice, e cioé spedito dei demo della nostra musica agli artisti dai quali siamo stati influenzati. Loro ci hanno risposto subito, e con entusiasmo, dichiarandosi pronti a prendere parte all'iniziativa. Avete conosciuto Alan Vega nello stesso modo? JARED: Avevamo partecipato a una compilation natalizia, un po' particolare, uscita su Cleopatra nel 2013, Psych-Out Christmas. Si trattava di un album con cover di brani natalizi eseguite da Fuzztones, Dead Meadow, Iggy Pop etc. Noi rifacemmo No More Christmas Blues, brano dei Suicide poco noto ma straordinario, tratto da un album altrettanto straordinario come A Christmas Records, una raccolta di temi natalizi alternativi e sperimentali pubblicata nel 1981 dalla ZE Records. Così mandammo la nostra cover a Vega e questi, con nostro sommo stupore, ci rispose quasi subito manifestando entusiasmo e voglia di realizzare qualcosa con noi. Eravamo al settimo cielo: capirai, i Suicide sono stati i nostri Beatles... Apprezziamo molto il lavoro di Alan non solo in ambito musicale ma anche come artista visivo. Ci ha accolto in casa sua e ci ha trattati con grande rispetto. È un uomo fragile, nel fisico almeno, però ancora animato da un'irrefrenabile vitalità. Così abbiamo fatto un dieci pollici assieme, da un lato la sua Nike Soldier, dall'altro una versione alternata della nostra Mad Mary Jones, e lui ci ha regalato un suo remix di 6am. È stata un'esperienza incredibile. Più in generale, per quanto riguarda il nostro rapporto con gli artisti, posso dirti di non aver avuto nessun timore a chiedere un parere a chi, nel corso degli anni, è stato importante per noi. Questo ci ha permesso di fare degli incontri pazzeschi, talmente significativi, in termini di ispirazione, da farmi solo sperare di poter fare la stessa cosa, in futuro, con altri giovani. Voi venite da una città relativamente piccola, ma nella vostra musica ci sono molti riferimenti, direi quasi "sensoriali", alla New York elettrica delle mille luci, al caos metropolitano; le liriche sono infarcite di immagini notturne, di scene ambientate all'alba, quando l'agglomerato della città si risveglia e torna a respirare. BRIAN: Ok, Burlington è una città carina,
io ho un piccolo studio dove possiamo esercitarci e mettere insieme i nostri collage
di suono, ma in fondo, in effetti New York è a un passo, c'è solo un lago a separare
i due posti. Comunque io ho sempre amato moltissimo tutta la scena gravitante
intorno al CBGB's; il punk, ovviamente, e dopo il punk la no-wave, ovvero l'idea
non solo che chiunque potesse suonare, ma che chiunque potesse suonare qualsiasi
cosa, rendendo eloquente la spigolosità sgrammaticata del suono della chitarra,
sì, però anche di percussioni, tastiere, amplificatori scassati e così via. Leggendo i vostri testi, che scrivete entrambi, con uno stile piuttosto simile, sembra sempre di ritrovarsi sul marciapiede di una grande città, prima del sorgere del sole, frustati in viso dal freddo. BRIAN: Per me si tratta di una specie di flusso di coscienza, di un modo per fermare su carta le percezioni del cervello, anche nelle sue fasi di alterazione. Se un testo mi sembra buono, deve rimanerlo nel giro di una o due riscritture, non di più...
BRIAN:
La vita, gli ascolti, le persone... Voglio dire, se ascolti 6am, è chiaro
che le immagini delle canzone, le strofe del tipo "alla pompa di benzina / con
la mia signora / più morta che viva" sono evidentemente ispirate al vecchio blues,
soprattutto a Lightnin' Hopkins... Poi ci sono i flash della vita di tutti i giorni.
Le stesse idee stanno alla radice dei materiali audiovisivi proiettati durante i concerti? JARED: Sì, è in entrambi i casi un tentativo di essere molto primitivi, assolutamente viscerali, eppure anche studiati e raffinati, tutto in un'unica soluzione. È come se da un segmento artistico ne nascesse un altro e tutto fosse in costante collegamento. Cerchiamo di incorporare tutte le forme d'arte possibili. Cinema, grafica, suoni, arti visive... Tutto è ugualmente importante. Per quanto mi riguarda, per esempio, il cinema di Robert Bresson, Federico Fellini, Ingmar Bergman o Andrej Tarkovskij è significativo quanto il free-jazz di Albert Ayler o la voce di Jeffrey Lee Pierce. Sono attirato e ispirato da tutte le produzioni costantemente in bilico, quelle dove avverti che tutto sta avvenendo nell'unico modo possibile - il più indicato, il migliore - e al tempo stesso hai la sensazione che tutto potrebbe cambiare all'improvviso, da un momento all'altro. Nei miei lavori cerco di esplorare la possibilità di far diventare poesia le parole di una canzone, installazioni artistiche le immagini alle nostre spalle. Prima parlavi di "primitivismo", vuoi spiegarmi il concetto? JARED: Non so se sono in grado di farmi capire, ma è come se nella mia mente avessi una certa idea di suono... non necessariamente un wall of sound nel senso di Phil Spector, direi piuttosto una army of sound, una truppa armata di suono, dove all'orizzonte appaiono i suoni della città, ottenuti partendo dallo spirito di Bo Diddley e Link Wray, per evocare i quali mi affido, soprattutto dal vivo, al tremolo della mia Vox Phantom XII a dodici corde (mentre in studio uso anche una Gretsch Country Gentleman quasi identica alla 6122 di Chet Atkins), e poi processando le loro intuizioni attraverso una sinfonia rumorista di ampli, electronics e pedali... BRIAN: In studio utilizziamo sempre due ampli Silvertone 1484 molto pratici... da noi li puoi comprare al centro commerciale, in fondo, e il fatto siano modelli cablati a mano ne incoraggia eventuali modifiche autoprodotte. È stato ascoltando il suono della mia batteria, che ho suonato per diversi anni, anche dal vivo (ogni tanto la suono ancora), riprodotto attraverso i Silvertone che ho capito come utilizzare le tastiere in modo non convenzionale, sfruttandole per ottenere e stravolgere i battiti del drum-kit. Nel farlo, è ovvio, ho avuto determinati modelli di ispirazione: Gillian Gilbert (New Order), Martin Rev (Suicide), i Kraftwerk. Siamo solo in due, io e Jared, ma vorremmo portare il nostro suono ai confini di quanto può essere prodotto da una band di due elementi. Tra l'altro le tue percussioni, organiche o sintetiche, hanno sempre un tocco molto tribale. Ho letto da qualche parte che sei un appassionato delle prime cose di Dr John. BRIAN: Amo i suoi primi album, Gris-Gris in particolare, quei suoni completamente affogati nel mix, come se gli strumenti stessero sprofondando in una palude di sabbie mobili. Quando lo ascolti la prima volta ti chiedi come accidenti l'abbiano registrato, perché i livelli sembrano tutti sbagliati, poi però ti rimane nella testa, diventa una specie d'infezione. Arriva il punto in cui lo canticchi e lo fischietti pure. È affascinante: ha ottenuto i suoni che voleva semplicemente facendo leva su di uno stratagemma di studio, ha preso le tipiche jam funky di New Orleans e le ha rese fottutamente spaventose mixandole in modo imprevedibile. Abbiamo parlato a lungo dei vostri amori, musicali e non solo, e mi sembra di poter dire siate affascinati da cose - Dr John, Gun Club, Velvet Underground - in grado di trasmettere un certo senso di spavento e minaccia... Ascoltando il vostro album mi è venuto in mente anche il John Cale più claustrofobico, almeno quello di Fear e Music For A New Society. JARED: Non so se si tratti
di paura o di una percezione di minaccia incombente... In ultimo, vorreste dirmi come diavolo si fa a chiamare una band Vacant Lots ("terreni sfitti"), visto che cercandovi su Google saltano fuori solo inserzioni di agenzie immobiliari? BRIAN: È vero! Ma ricordo ancora quando
Jared venne da me con una lista di nomi possibili: "Vacant Lots" colpì subito
nel segno...
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