“Usually only men!” esclama un divertito Sid Griffin al
tavolo firmacopie, mentre gli metto in mano il vinile di State of Our
Union. E ha ragione: sono l’unica femmina che cerca di farsi largo
tra nugoli di maschi. Ma anche questo serve a rendere un po’ stralunato
questo venerdì santo in quel di Chiari, centonovantacinquesimo appuntamento
della benemerita ADMR. Sfidando il traffico prepasquale alcuni arrivano
da lontano, osando tangenziali da incubo e incrociando cattolicissime
processioni. Nell’attesa che il set abbia inizio ci si scambia dischi,
biografie rock scritte in proprio e suggestioni. Ci si riconosce, siamo
una piccola comunità e già questo potrebbe bastare. Poi c’è il concerto
e quanto a distanze non ci va leggera neanche la band, che ieri sera si
è esibita ad Helsinki, mica uno scherzo. Sono passati appena due giorni
dagli Arcimboldi, dove la Tedeschi
Trucks Band ci ha portato in paradiso ed eccoci atterrati qui
– visto che suppergiù siamo gli stessi – nella profonda provincia bresciana
dove l’happy hour si chiama pirlo.
Il salto è impegnativo ma non privo di interesse. Perché è vero o no che
il rock’n’roll più verace esige riti da spelonca? E che, quando la scena
è un teatrino di periferia, si carica di irresistibile fascino underground?
E allora mettiamo in conto che, mentre il riff di Gunslinger Man
apre le danze, altre danze si aprano per davvero impossessandosi dei vicini
di posto. Avrete certamente presente quegli irriducibili che conoscono
a memoria ogni parola dei testi e pertanto si ritengono investiti della
missione di propinarveli integralmente a pochi centimetri dal vostro padiglione
auricolare... Ebbene al terzo brano, che poi è A stitch in time
– a ricordarci che Two Fisted Tales non è stato un album minore
– ci si conferma che la minaccia di una gomitata nel bulbo oculare non
è affatto remota e che anzi si fa più concreta man mano che il puzzo di
birra economica diventa più acre. Ma, sia detto, è tutta qualità. Cosa
farsene di una platea compassata a un concerto dei Long Ryders?
Più precisamente: THE Long Ryders, perché dai Byrds hanno preso anche
l’articolo, oltre alla malizia della ipsilon. Quando irrompono sul palco
la prima cosa che noti sono le bretelle fosforescenti di Griffin. Non
puoi non notarle e lui lo sa. Che sia un tantino narciso è risaputo, ma
aggiungerei irriverente quando ci prende per i fondelli facendo parlare
al microfono il suo smartphone. La sua ipertrofia egotica gli fa pronunciare
cose tipo “my album” e “my band”. Tutto suo. E quando ritiene che sia
giunto il momento di avvalersi del nostro supporto canoro non è che si
limiti ad esortarci, ce lo impone proprio, intimando al fonico di spegnere
il suo microfono che lui sciopera.
Fastidioso? No per niente, divertente. E poi ci pensano la compostezza
e la professionalità di Stephen McCarthy, comprimario indispensabile
all’economia della formazione, a neutralizzare le rotazioni pelviche e
diciamo un tantino senili del Griffin. E sono le ancor fresche sembianze
di Stephen a permetterci di riannusare la polvere sugli stivaloni dei
quattro cowboys che ci fissavano perentori dalla più iconica delle loro
copertine. Chè loro sono soprattutto questo: aspiranti fuorilegge che
non a caso rapinarono il nome a Walter Hill. L’uno è Frank, l’altro giocoforza
Jesse James. Se poi ci aggiungiamo Tom Stevens e Greg Sowders
– sezione ritmica e altro ancora – hai voglia di assaltare i treni del
Missouri… Intanto questa sera è un assalto in crescendo, perché quando
tra le mani di Sid si materializza una Rickenbacker la cavalcata si fa
galoppo. E’ la svolta del concerto, che da qui in poi sarà puro divertimento.
Il nervosismo iniziale nei movimenti di Griffin scompare (o forse ci abbiamo
fatto l’abitudine) e l’intera band è più sciolta. Greenville è
serena con le sue doppie voci, quindi dai, ci sto “portami giù a Mobile,
portami lì stanotte”. Molly Somebody soffia una brezza di nostalgia.
Bells of August è un’ode bucolica a firma Tom Stevens. E mentre
What the Eagle See completa l’offerta dal nuovo album, pensi al titolo
che gli hanno dato, al nuovo album – Psychedelic
Country Soul - una specie di dichiarazione d’intenti stilistica,
o semplicemente un’altra presa per i fondelli. Comunque sia ti interroghi
sull’utilità delle definizioni, che in fin dei conti sono soltanto parole
e, come capita spesso alle parole, hanno la pecca dell’impermanenza. Non
reggono all’evolversi degli eventi, figuriamoci al mutare degli individui.
Per questa band di definizioni ne sono state spese parecchie. Chè poi
il Paisley Underground l’hanno respirato di striscio, non ci stavano dentro
mani e piedi come Dream Syndicate o Green on Red e neanche The Rain Parade.
Del punk si sono serviti allo stesso modo in cui si spolvera di erbe aromatiche
l’arrosto. Se gli va, piuttosto omaggiano Tom Petty con una cover di Walls.
E stasera gli va. C’entra di più il country rock dei Flying Burrito, ma
alla fine loro sono semplicemente The Long Ryders. Ce lo enunciano chiaro
e tondo dove vorrebbero che piazzassimo l’altarino, quando scrivono cose
come questa: “Stavo pensando al Tim Hardin degli ultimi tempi. Ecco, quando
Tim sarà in paradiso spero che parlerà a Gram dei Long Ryders” (da Looking
for Lewis and Clark).
Chissà se, mentre compivano le loro spedizioni verso il West, Lewis e
Clark si aspettavano che il bis di stasera sarebbe stato dedicato a loro.
Sta di fatto che su questo finale, quasi un anthem ormai, la birra non
tiene più il sentiero, l’euforia sfocia in pogo e pure Stephen McCarthy
rompe gli indugi: scavalca la cassa spia, punta la Fender sui pogatori
e ai suoi stivali stavolta ci potresti addirittura soffiar via la polvere.
Ma ce la lasciamo, perchè per i fuorilegge la polvere è vita.