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Americana, alt-country di
Davide Albini (12/10/2013)
Un dato lo afferri al volo di Brian Wright: non è "un altro cantautore
texano", nel senso che anche con tutti gli sforzi possibili (leggo in questo momento
davanti a me alcune note dal web), è davvero difficile liquidarlo come un semplice
testimone della lunga tradizione locale, quella che parte sempre e irrimediabilmente
dai vari Guy Clark, Townes Van Zandt e Steve Earle. Certo, ci sono echi di queste
immortali firme del country d'autore nella musica di Rattle Their Chains,
c'è l'attenzione maniacale per i caratteri e le storie, una predisposizione a
raccontare il lato oscuro della strada, la marginalità della vita, ma musicalmente
Wright potrebbe essere l'anello mancante tra l'alternative-country, il linguaggio
indie folk e la tradizione di cui sopra. Ci aveva già sorpreso favorevolmente
Wright con il precedente House
on Fire, uno degli esordi più interessanti del settore songwriter
per il 2011, album che la Sugar Hill aveva ripescato dopo una prima pubblicazione
autoprodotta.
Oggi Wright ci riprova seguendo quella falsariga con Rattle
Their Chains, anche se l'album appare più studiato e composito, forse il risultato
anche di una collaborazione più stretta con i musicisti. Se infatti il precedente
nasceva soprattutto come opera solitaria (Wright suonava buona parte degli strumenti),
un modo per lasciarsi alle spalle l'avventura con i Waco Tragedies (due dischi
indipendenti registrati a Los Ageles e passati del tutto inosservati…se non alla
Sugar Hill, dove hanno orecchia sensibili), questo nuovo episodio mostra un sound
meno schizofrenico e una predilezione per i toni crepuscolari della ballata e
del walzer country, seppure riletti con la sensibilità di un musicista giovane
e aperto a diverse soluzioni. Ecco allora che Over Yet
Blues ci introduce alla scrittura tra southern gothic e troubadour
folk di Wright: l'aria è blues e guidata dall'organo, ricca di groove nero, mentre
We Don't Live here potrebbe uscire dalla penna
di un Ryan Adams, con un'anima da ballata rock da terra promessa, anche se il
vero gioiellino si intitola Rosalee, drammatica
ballata che danza sul border, degna di un Alejandro Escovedo.
Peccato
questa magia non si ripeta altrove, anche se la varietà di umori resta una delle
caratteristiche peculiari di questo autore: ci sono i fiati da funeral band di
New Orleans a introdurre The Good Dead Queen, un fischietto leggero e una
melodia pop degna dei Beach Boys a caratterizzare Hear
What I Want, il piano da saloon e una scatenata pedal steel in Face
of The Earth, che ricorda il country cosmico dei Flying Burrito Brothers
di Gram Parsons. E nonostante tutto, come sottolineato, Rattle Their Chains appare
decisamente più "moderato" e pensato come disco: abbonda così la forma della ballad,
da quella più rurale per acustica e banjo in Red Rooster
Social Club al dolce country rock di Haunted,
passando per i toni rilassati di Weird Winter e
You Got It All, dove si manifesta quella sintesi di cui parlavo in apertura:
un occhio ai maestri, ma anche una qualche parentela con la generazione dei vari
Bonnie Prince Billy e Elvis Perkins. Un autore con ampi margini di crescita, forse
ancora alla ricerca di una voce personale, per questo forse confuso tra tanti
stili.