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guitar maestro di
Nicola Gervasini (19/02/2013)
Sta diventando persino noioso recensire gli album di Richard Thompson.
L'uomo è inattaccabile: resta uno dei migliori chitarristi della storia, sia sul
piano tecnico (per cui è considerato un maestro), sia da quello emozionale, resta
uno degli autori più importanti della musica inglese, con svariate canzoni "ricoperte"
da artisti di gran valore, e resta uno che c'era sempre laddove si scriveva la
storia del brit-folk, e che continua ad esserci laddove si stilano le classifiche
di fine anno di un sito o giornale folk-oriented (e non solo…). Resta inoltre
un performer sempre brioso e sorprendente, i suoi concerti paiono sempre perfetti,
e se dicessimo che non ha mai veramente sbagliato un disco in carriera non saremmo
poi troppo lontani dalla verità. Electric, diciamolo subito, è l'ennesima
testimonianza della sua superiorità, sulla media ma anche sull'eccellenza probabilmente,
undici brani come al solito impeccabili per costruzione melodica e testi (spesso
anche alquanto crudi e diretti come Sally B
o ironici come Straight And Narrow), più altri
sette dell'edizione Deluxe che consigliamo (più che altro per sentirlo cantare
l'italiano antico di So Ben Mi Ch'a Bon Tempo, rilettura di una vecchia
aria di Orazio Vecchi del 1600).
Stavolta però nel promuovere la sua fatica
ci permettiamo un piccolo rammarico, derivante dal fatto che Electric è stato
registrato negli Stati Uniti negli studi di Buddy Miller, e sebbene le
dichiarazioni di Miller lo facessero intuire ("ho preso lezioni di chitarra per
due settimane con Richard"), il cambio di territorio non ha sortito effetti considerevoli
sul suo stile. Vero che la parentela tra folk britannico e musica country è talmente
stretta che non era ipotizzabile un grande sconvolgimento, ma gli inserti di violino
nashvilliano di Stuart Duncan, del violoncellista Yo Yo Ma e del mandolinista
Chris Thile, per non parlare delle chitarre dello stesso Miller e di Vince Gill,
non hanno portato contributi determinati. Certo, in Where's
Home si respira aria di America rurale, la splendida ballata My
Enemy (con la voce di Siobhan Maher Kennedy) potrebbe essere anche
venduta ai Cowboy Junkies, ma il marchio di fabbrica di Thompson alla fine continua
a sovrastare il tutto.
Colpa forse della sua personalità debordante o
del troppo timor reverenziale evidenziato dal Miller produttore, ma Electric suona
troppo come gli altri titoli della sua discografia per poter essere considerato
il suo vero "Atlantic Crossing". Quasi che Thompson abbia voluto dimostrare empiricamente
che la musica americana non esisterebbe senza la tradizione di cui si sente portavoce
indiscusso da ormai quarant'anni, e in un certo senso brani come Good
Things Happen to Bad People dimostrano come effettivamente non esistono
veri steccati tra mondo britannico e mondo americano. Per noi comunque rimane
l'ennesima raccolta impeccabile, forse con qualche colpo di scena in meno rispetto
ai precedenti Sweet Warrior e Dream Attic, ma con nuovi brani da ricordare come
Salford Sunday o Saving The Good Stuff
For You.