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primitive roots di
Fabio Cerbone (08/07/2013)
Dovessimo fare un elenco dei folksinger più sconosciuti di Nashville (leggasi
"di culto", che suona decisamente meglio), il nome di David Olney
rientrerebbe certamente nella lista: e non pensiate per demerito o per scarsa
qualità, perchè una buona parte delle sue canzoni sono finite nel repertorio di
gente come Emmylou Harris, Linda Ronstandt o Johnny Cash. Dunque uno di quegli
autori che lavorano pazientemente dietro le quinte, ma non si stancano di macinare
strada e palchi per proporre direttamente la loro musica. Olney è in giro da una
quarantina d'anni ormai, quando arrivò dal Rhode Island nel Tennessee e cominciò
a frequentare il dark side della scena country, seguendo l'esepio di Kristofferson
e Guy Clark, formando prima gli X-Rays e poi firmando una serie di album per la
Philo. Non a caso su di lui hanno speso parole importanti personaggi quali Townes
Van Zandt (e più di un punto in comune sussiste con i troubadour texani per quanto
riguarda lo stile) e Steve Earle, forse perchè attratti da un atteggiamento comune
verso la canzone e lo storytelling.
Difficile forse affermare, come fanno
invece impunemente le note del suo sito, che Olney sia "il Leonard Cohen della
scena Americana", ma le prendiamo con una punta di ironia e ci addentriamo in
questo Predicting the Past, album numero venticinque di una discografia
prolifica e scombinata, che ultimamente ha visto anche la pubblicazione di tre
ep di ispirazione noir riuniti sotto il titolo Body of Evidence. La norvegese
Rootsy rende disponibile il disco in Europa con largo anticipo rispetto all'uscita
americana (prevista per l'autunno), inserendolo nella serie Rootsy Approved,
Introducing Americana Music, correndando la confezione con un secondo cd antologico
che ripercorre l'ultimo decennio di produzioni indipendenti di Olney, attraverso
una selezione di diciasette tracce. Si parte dall'ottimo Omar's Blues del 2000
e si arriva all'ep Robbery & Murder del 2012.
Il materiale inedito invece
occupa una lunga prima parte, sedici brani, registrati con Paul Burch a
Nashville: formazione ridotta all'osso con il fido Sergio Webb alle chitarre e
lo stesso Burch alla batteria, qualche ospite occasionale (Fats Kaplin alla steel,
Jen Gunderman all'organo) Predicting the Past è una raccolta di roots music primitiva
e hillbilly rock scheletrico, in cui episodi quali Girl
Up in the Hill, You Never Do, Jama
Ball, We're All Innocent Here o
Lone Gone Daddy potrebbero sbucare da un vecchio vinile della metà dei
Cinquanta. Radici country blues, puntate nel rockabilly (Lampshades),
ritmiche ossute che ricordano un po' lo stile dello stesso produttore Paul Burch,
un tipo che sguazza in queste sonorità da sempre, a cui Olney aggiunge la sua
voce imperfetta, sgraziata, autentica. La prima parte è senz'altro la più intrigante
da questo punto di vista, perdendo un po' di mordente in seguito sia per la lunghezza
eccessiva, sia per la presenza di ballate dove il canto di Olney si mostra fin
troppo dimesso (There Was a War, Things Fall Apart,
The Beginning and the End).
Non uno dei suoi dischi più
accessibili, ma tra quelli più particolari vi rientra senza dubbio: e per chi
non lo conoscesse affatto la parte antologica è un buon viatico.