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folk crooning di
Gianuario Rivelli (01/10/2013)
Non
c’è niente di più anacronistico di un disco come Dream River. Niente
che strida maggiormente con questi tempi di compulsivi ascolti usa e getta, di
musici paraculi che strizzano l’occhio e contano i soldi. Per entrare nella dimensione
Callahan è necessario prendersela comoda, lasciare il mondo fuori e abbandonarsi
come il Noodles di Sergio Leone nella fumeria d’oppio, lasciandosi lentamente
avvolgere dalle volute di una voce profonda e carismatica che danza su un fiume
carsico di strumentazioni essenziali, sommesse ma pronte ad esplodere in squarci
brevi e improvvisi, prima che torni nuovamente la quiete. Premete play e, testi
alla mano (imprescindibili: “mountains don’t need my accolades” e “the eagle flies
using the river as a map” sono due esempi di puro lirismo che non devono rischiare
di passare inosservati), raggiungete lo sciamano Bill che vi aspetta su una delle
montagne della copertina (verrebbe da dire dalla sua mountain of song, dando adito
ai paragoni con Leonard Cohen, per nulla campati in aria): vedrete passare aquile
e giavellotti, gabbiani, piccoli aerei e frecce, attraverserete radure folk e
jazzate, incontrerete arpeggi, feedback e campiture (straordinario Matt Kinsey),
guizzi di flauto (impeccabile Beth Galiger) e percussioni soffuse (Thor Harris).
Come già accennato è il canto di Bill Callahan a fare strada, stella
polare che procede lentamente con (im)percettibili variazioni (come quando in
The Sing, country crepuscolare d’apertura,
ripete in modo differente le uniche due parole che il protagonista ha pronunciato
quel giorno: “beer and thank you”), vestendosi da crooner rassicurante (Seagull,
elegante ed avvolgente notturno che parte à la Cohen e poi allarga gli orizzonti
con inserti jazzati) o da visionario predicatore (Ride
My Arrow, fingerpicking e divagazioni). Javelin Unlanding è
il brano più accessibile, trascinante cimento di folk rock da frontiera, Spring
è invece un animale selvatico, una Sexual Healing del deserto (il paragone lo
ispira Callahan stesso citando Marvin Gaye in The Sing), abrasiva, sensuale e
non consolatoria, trascinata da un lavorio pazzesco di Kinsey alla chitarra. Il
baricentro del disco è Summer Painter. Qui
Callahan riecheggia Terrence Malick (ne condivide peraltro la ritrosia, non la
scarsa prolificità dato che siamo al disco numero 18 compresi quelli a nome Smog)
che mentre osserva l’effimera vanità umana impersonificata da un pittore che dipinge
barche, stacca all’improvviso sui castori che costruiscono le loro dighe (“Rich
man’s folly and poor man’s dream/ I painted these while beavers built dams alla
round me”).
Il tutto in un clima rarefatto, atemporale fino a che flauto
e chitarre crescono all’arrivo della tempesta, si alzano fino a farsi quasi cacofonia,
prima che tutto si cheti nuovamente (“Then came a quiet no one should know”).
Sì, perché è vero che non c’è mai pacificazione, ma più che in passato c’è una
tranquilla contemplazione delle cose della vita (per esempio l’amore nel delicato
folk da camera di Small Plane) che spesso
sfocia in relativa serenità (Winter Road,
praticamente un quadro di Hopper reso canzone). Ennesima grande prova di un fuoriclasse,
Dream River è uno dei rari dischi che continua a crescere man mano che si va avanti
con gli ascolti, rivelandosi nei suoi infiniti risvolti. Dategli tempo e vi ipnotizzerà.
E quando scenderete dalla montagna, spargete la voce: dopo Apocalypse,
Bill Callahan si è rifatto vivo e merita un’altra standing ovation.