Che una delle musiche americane
dai tratti più sfuggenti e desertici che si possano ascoltare di recente
provenga da un duo di origini austriache è già motivo di attrazione e
curiosità, che i Son of the Velvet Rat lo stiano facendo da diverso
tempo e meritino finalmente qualche attenzione maggiore rispetto alle
“buone maniere” di molti colleghi, anche e soprattutto da parte di quel
pubblico che segue certa roots music ammantata di sensibilità d’autore,
sarebbe altrettanto legittimo. Ghost Ranch, a completare
idealmente una sorta di trilogia nata ai confini del deserto californiano
del Mojave, presso gli studi Red Barn del produttore Gar Robertson (già
al lavoro sul precedente Solitary Company)
situati nella Morongo Valley, è un’ulteriore prova di come Georg Altziebler
e Heike Binder, coppia artistica e nella vita, abbiano assimilato fin
nelle ossa linguaggio, strutture e fascino di certo folk rock dai tratti
sabbiosi e dark, come annuncia l’armonica e l’incedere lunare di Bewildering
Black & White Moments Captured On Tral Cams.
La voce sussurrata e dolcemente aspra di Georg, un po’ Leonard Cohen,
un po’ Howe Gelb (Giant Sand), i controcanti diafani della moglie Heike,
lo scheletrico impianto acustico delle loro ballate, via via arricchite
di sfumature cinematografiche ed echi western noir, sono la quintessanza
di uno stile che è maturato nei dieci anni in cui i Son of the Velvet
Rat (destabilizzante e insolito anche il nome della band) hanno frequentato
e vissuto nella comunità di Joshua Tree, luogo che occupa un posto speciale
nella mitologia dell’american music e al quale si sono rivolti dopo una
prima parte di carriera svoltasi in terra austriaca. E proprio all’incrocio
fra eleganza mittleuropea e scrittura folk americana si sviluppano queste
canzoni dal senso misterioso ed “eterno”, riflesso anche nelle parole
e nel canto di Georg Altziebler, unico autore e centro di gravità dei
Son of the Velvet Rat, con le sue liriche sospese tra luci e ombre.
Se a ciò aggiungete la capacità del duo di avere stretto una salda collaborazione
con alcuni dei musicisti più importanti delle scena californiana, dalla
produzione passata di Joe Henry (per l’album Dorado
del 2017) alle presenze attuali in Ghost Ranch di Jay Bellerose
(batteria, spesso anche “trattata” con un beat più metallico e moderno)
e Jennifer Condos (basso), ma soprattutto di un nome inattaccabile come
quello di Marc Ribot (chitarre), avrete restituito l’arcano insito
in languide ballate quali Are the Angels Pretty?
e Deeper Shade of Blue, nelle quali
una fragile dolcezza è sottolineata dalla presenza dell’ospite Jolie
Holland ai cori, mentre Beautiful Day si carica di una tensione
rock dai tratti psichedelici, dilatati e polverosi, qui davvero a disegnare
immagini dal desetto del Mojave, anche in una Kindness of the Moon
screziata dagli interventi di violino e lap steel, che ricorda i migliori
Cowboy Junkies.
Insistendo su un suono “western americana” spaziale e rarefatto (Rosary,
oppure la luminosa melodia di Southbound Plane,
colorata dall’organo di Tony Patler), sull’alternanza di vuoti e pieni,
sull’esile intimità acustica del songwriting di Georg Altziebler (Golden
Gate, New Frontier) Ghost Ranch ci guida in una terra
di contrasti e di orizzonti infiniti, di fiori del deserto e bagliori
distanti, fino a che il canto serale delle cicale (Cicadas, ultimo
breve estratto in scaletta) non annuncia il calare del giorno e del viaggio
dei Son of the Velvet Rat.