Non è nuovo
a cambi repentini Israel Nash, o meglio, dal suo punto di vista
artistico, a evoluzioni sonore che ne mettano alla prova il songwriting,
ma la svolta di Ozarker sorprenderà non poco chi ne aveva
apprezzato i toni psichedelici e le escursioni “dark soul” dei precedenti
album, in particolare in Topaz,
forse l’opera che lo aveva definitivamente imposto alle attenzioni del
pubblico americano, dopo un decennio di culto passato soprattutto ad acquisire
sostenitori sui palchi della vecchia Europa.
Originario del Missouri, sbocciato come autore a New York, maturato come
musicista in Texas, dove da qualche anno si è stabilito in un ranch isolato
a Dripping Springs, costruendosi un personale studio di registrazone,
Israel Nash ha deciso che era tempo di fare ritorno alla casa natale,
di riscoprire insomma l’educazione sentimentale e le radici famigliari
nel profondo Midwest, e di conseguenza di farsi rapire da una scrittura
musicale che riprendesse in mano i fondamentali. Ozarker, con l’esplicito
riferimento all’estesa regione delle Ozark Mountains e alla natura dei
suoi abitanti, è in tal senso una scelta di campo netta, dieci ballate
elettriche carburate sui tempi medi di un pirotecnico heartland rock,
si sarebbe detto una volta, che Israel ammette esplicitamente di avere
mutuato dalla lezione di Bruce Springsteen, Tom Petty e Bob Seger, sebbene,
aggiungiamo noi, quelli dell’età di mezzo, calati negli anni Ottanta delle
produzioni più caricate di enfasi e di un inconfondibile “big drum sound”.
C’è quel tappeto di tastiere in Can’t Stop ad
annunciare il nuovo corso: sembra di assistere all’inedito singolo dei
War on Drugs, mentre le chitarre si caricano di riverberi e la musica
gonfia il petto. Roman Candle segue la sceneggiatura e la stessa
Ozarker, canzone ispirata alla storia del bisnonno migrante nel
Missouri, ne amplifica il gesto, con l’entrata di un coro un po’ fuori
misura che la conduce negli stadi, rincarando la dose nell’incalzante
arrangiamento da retorica rock di Going Back. Concettualmente,
e non solo, non cadiamo molto distanti da quanto emerso nel lavoro di
Adam Granduciel e della sua fortunata band (i citati War on Drugs), così
come dalle idee sonore riportate in superficie dal Ryan Adams - da sempre
un'ombra alle spalle di Israel - dell’omonimo album del 2014 o da Prisoner:
l’incontro fra rock americano da strada maestra, pulsioni mainstream e
solide basi americana offre così la sintesi di Pieces e Lost
in America, mentre Firedance ci
ricorda che Israel Nash è pur sempre un figlio illegittimo di Neil Young.
La sfida non facile di Israel sta nel cercare un equilibrio tra estetica
del suono e profondità della canzone, incalzato in tutto ciò dalla produzione
“esagerata” di Kevin Ratterman, già al lavoro con My Morning Jacket, Ray
LaMontagne e Madrugada: così la voce lacerata e potente di Israel in questa
occasione sembra immolarsi per la causa delle chitarre e delle batterie
“larger than life”, come le definisce la presentazione ufficiale dell’etichetta,
mentre i sintetizzatori grondano tutto intorno e Ozarker finisce
probabilmente per trovare la sua dimensione migliore quando la scaletta
volge al termine, nel dittico costituito da Travel On e da una
Shadowland che, scevra dagli eccessi
dell’incisione, rimane uno dei migliori esempi di classic rock americano
ascoltati nel 2023.