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Neil Young with Crazy Horse
World Record
[Reprise/ Warner 2022]

Sulla rete: neilyoungarchives.com

File Under: suonala ancora Neil


di Fabio Cerbone (28/11/2022)

C’è modo e modo di affrontare l’età della raggiunta saggezza, anche in musica. Neil Young ha scelto, fedele alla sua storia e al suo personaggio, la via più contradditoria e frenetica: pubblicare ogni singolo gesto, qualsiasi idea lo ispiri al momento, affezionato alla prima impressione. Curioso dunque che, nonostante un approccio assai simile dai due diversi ruoli occupati, Young e Rick Rubin si siano effettivamente incontrati soltanto adesso (anche se il corteggiamento e gli incontri in passato non sono mancati), ponendo la firma su questo World Record, terzo album nel giro di un anno in combutta con i Crazy Horse (se contiamo anche gli “archivi” recuperati di Toast), inciso negli studi di Rubin a Malibu, California.

Proprio l’approccio diretto e libero di entrambi i personaggi, inclini a far prevalere la spontaneità su tutto il resto, non ha fatto altro che assecondare quella tendenza che Neil Young ha già ampiamente dimostrato nella sua confusa e abbondante discografia di queste stagioni. Con la foto del giovane padre Scott in copertina, forse a simboleggiare un debito nei suoi confronti, World Record è un grido di dolore, l’ennesimo del nostro, per la salvezza della Terra, per lo stato precario dell’umanità e per espiare le colpe verso i figli, che erediteranno questo mondo malato. Tradotto prosaicamente in undici episodi (con la dolce litania di This Old Planet ripresa due volte) che alternano sbilenche sfuriate blues, come la straniante The World (Is in Trouble Now) e la più rissosa Break the Chain, a placide ballate con melodie spolverate da un gusto rétro (l’apertura con Love Earth; The Long Day Before), World Record è il riflesso delle vere e proprie ossessioni di Young, non solo in termini di messaggio (semplice, sincero e naif come ci ha più volte abituato), ma anche e soprattutto di una musica che non vuole cedere a troppi ripensamenti, buona la prima, nel segno dell’istinto.

Con tutti i pregi (pochi, siceramente) e i difetti (molti, specie se si pubblica un disco ogni sei mesi) che questo atteggiamento riverbera anche sulle dinamiche dei Crazy Horse. La band in questa occasione è tenuta persino più a freno, cadenzata sulle note di piano, organo a pompa e squeezebox, che guidano le melodie di Overhead, This Old Planet (Changing Days) e Walkin' on the Road (To the Future), a evocare in qualche modo la rotta che fu di dischi come Tonight’s the Night o Sleeps with Angels, ma certo non con le stesse vette artistiche, mentre i soli quindici minuti di Chevrolet sembrano pagare il dovuto pegno alla classica immagine rock del binomio Young/Crazy Horse, con quell’errare elettrico che non vorremmo finisse mai, anche se lo abbiamo già sentito in tutte le combinazioni possibili.

E per la contraddizione di cui sopra, non si capisce bene perché, dopo avere dedicato una lunga sequenza di canzoni alla salvaguardia di questo martoriato pianeta, si possa intonare un lungo inno di gioia a un’automobile… Forse appositamente modificata ed ecologica, risponderebbe Neil Young.


    



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