C’è modo e modo di affrontare
l’età della raggiunta saggezza, anche in musica. Neil Young ha
scelto, fedele alla sua storia e al suo personaggio, la via più contradditoria
e frenetica: pubblicare ogni singolo gesto, qualsiasi idea lo ispiri al
momento, affezionato alla prima impressione. Curioso dunque che, nonostante
un approccio assai simile dai due diversi ruoli occupati, Young e Rick
Rubin si siano effettivamente incontrati soltanto adesso (anche se il
corteggiamento e gli incontri in passato non sono mancati), ponendo la
firma su questo World Record, terzo album nel giro di un
anno in combutta con i Crazy Horse (se contiamo anche gli “archivi” recuperati
di Toast),
inciso negli studi di Rubin a Malibu, California.
Proprio l’approccio diretto e libero di entrambi i personaggi, inclini
a far prevalere la spontaneità su tutto il resto, non ha fatto altro che
assecondare quella tendenza che Neil Young ha già ampiamente dimostrato
nella sua confusa e abbondante discografia di queste stagioni. Con la
foto del giovane padre Scott in copertina, forse a simboleggiare un debito
nei suoi confronti, World Record è un grido di dolore, l’ennesimo
del nostro, per la salvezza della Terra, per lo stato precario dell’umanità
e per espiare le colpe verso i figli, che erediteranno questo mondo malato.
Tradotto prosaicamente in undici episodi (con la dolce litania di This
Old Planet ripresa due volte) che alternano sbilenche sfuriate blues,
come la straniante The World (Is in Trouble Now) e la più rissosa
Break the Chain, a placide ballate
con melodie spolverate da un gusto rétro (l’apertura con
Love Earth; The Long Day Before), World Record
è il riflesso delle vere e proprie ossessioni di Young, non solo in termini
di messaggio (semplice, sincero e naif come ci ha più volte abituato),
ma anche e soprattutto di una musica che non vuole cedere a troppi ripensamenti,
buona la prima, nel segno dell’istinto.
Con tutti i pregi (pochi, siceramente) e i difetti (molti, specie se si
pubblica un disco ogni sei mesi) che questo atteggiamento riverbera anche
sulle dinamiche dei Crazy Horse. La band in questa occasione è tenuta
persino più a freno, cadenzata sulle note di piano, organo a pompa e squeezebox,
che guidano le melodie di Overhead, This Old Planet (Changing
Days) e Walkin' on the Road (To the Future), a evocare in qualche
modo la rotta che fu di dischi come Tonight’s the Night o Sleeps
with Angels, ma certo non con le stesse vette artistiche, mentre i
soli quindici minuti di Chevrolet
sembrano pagare il dovuto pegno alla classica immagine rock del binomio
Young/Crazy Horse, con quell’errare elettrico che non vorremmo finisse
mai, anche se lo abbiamo già sentito in tutte le combinazioni possibili.
E per la contraddizione di cui sopra, non si capisce bene perché, dopo
avere dedicato una lunga sequenza di canzoni alla salvaguardia di questo
martoriato pianeta, si possa intonare un lungo inno di gioia a un’automobile…
Forse appositamente modificata ed ecologica, risponderebbe Neil Young.